Nel 2025 Temptation Island non è più — o non è più solo — un capolavoro del voyeurismo trash, né una raffinata saga mentale di redenzione dal berlusconismo sentimentale, a Silvio morto.
Quest’anno come non mai, proprio grazie all’evidente abbassamento del budget per le location (totalmente ingiustificato dallo share sempre altissimo) Temptation sembra la versione umidiccia e scrostata del teatro antico: la reincarnazione balneare della tragedia greco-romana, i cui attori non sono più calzati di coturni, ma di ciabatte infradito. Ci sono i due cori, maschile e femminile, che si osservano e si commentano da due sedi separate quali schiere parallele di destinati alla disfatta. C’è il fato, in forma di montaggio. C’è la scenografia naturale — mare, sassi, siepi — che non consola ma amplifica. C’è il deus ex machina: Filippo Bisciglia, con camicia bianca sbottonata e sguardo da Cristo terzomondista del disagio affettivo. E ogni volta, inevitabile, arriva la punizione: non per chi ha mentito meglio, ma per chi ha osato amare per davvero.
Temptation Island non è più un’isola — se mai lo è davvero stata. È un angolo di Calabria con vista non mozzafiato, un resort di medio profilo con siepi tagliate male, gazebo Ikea sbiancati dal sole e camere che gridano booking.com più che paradiso tropicale. Ma è proprio qui che la tragedia raggiunge la sua pienezza. Perché il luogo non è più un Eden perduto, ma un purgatorio di provincia. E se l’amore deve morire, meglio che lo faccia sotto un ombrellone storto, con il rumore dei climatizzatori in sottofondo, i Mikado spuntati e una Vitasnella mezza calda servita con due cannucce.
Questo downgrade scenografico non toglie pathos: lo aumenta. Perché il contrasto tra la piccolezza della scenografia e la vastità del dramma è totale. È un teatrino da quattro soldi, ma si recita Eschilo. Le luci sono sbagliate, i costumi improbabili, ma il dolore è autentico, sporco, lacerante. Il falò è un’ara sacrificale di compensato. La povertà del contesto — lo squalliduccio che filtra ovunque — rende tutto più credibile, più crudele, più vicino. Perché non c’è nessun lusso che anestetizzi, nessun prato in vera erba che mitighi la caduta. Solo lettini scomodi, pianti veri, e l’inesorabile sensazione che l’amore, se deve finire, ma anche se proprio deve durare, lo farà benissimo anche in una piscina non interrata.
Temptation è un reality, certo. Canonico, cronico, stagionale, come la zanzara tigre e la sagra della porchetta. Eppure non somiglia a nient’altro. Perché non c’è gara, non c’è premio, non c’è eliminazione, non c’è un montepremi. Nessuno viene incoronato, nessuno viene “nominato”, nessuno esce per strategia. A Temptation non si gioca per vincere. Si gioca per vedere se si può sopravvivere a sé stessi. E già questo lo rende una creatura anomala nel palinsesto ipercompetitivo della TV contemporanea.
È un programma che non valuta quanto sei simpatico, ma quanto sei disposto a mentire guardando in camera. Che non ti costringe a cantare, ballare o convivere con dei vip — ti chiede solo di amare, o di fingere di farlo, o di fingere ancor meglio di aver smesso di farlo, davanti a una nazione intera. Ecco perché ne parliamo, ogni estate, con un misto di ironia e vertigine morale: perché Temptation Island non racconta le ambizioni, racconta i cedimenti. Non mette in scena il sogno, ma il momento esatto in cui si spezza.
Ne parliamo perché è più onesto di tanti esperimenti sociali che si danno arie e più crudele di un documentario naturalistico della BBC sulla violenza dei calabroni. E perché, in un’Italia che non va in terapia ma va volentieri in onda, Temptation resta uno dei pochi luoghi dove il sentimento viene ancora preso, nonostante tutto, sul serio — anche mentre crepa di sudore davanti a un falò.
Prendete Alessio e Sonia M. Lei, 48 anni, avvocata, entra in trasmissione già esausta, già consapevole di tutto. È la Cassandra del programma: vede subito la fine, ma nessuno le crede. Lui, più giovane, avvocato a sua volta grazie a lei, gioca a fare il poeta dialettale, ma appena lo sguardo e la frangia cotonata di Sonia diventano di nuovo reali, scappa via come un filosofo francese davanti a una domanda concreta. Sonia chiede un falò anticipato, Alessio accetta, poi si sfila: non è pronto, non è lucido, non è lì. E in quel piccolo nulla – quel rifiuto codardo e contemporaneo – c’è tutta la crisi maschile dell’anno 2025: desiderio di relazione senza esposizione, voglia d’amore senza spunte, pathos senza conseguenze.
Uno degli elementi più rivelatori dell’edizione 2025 di Temptation è che molte coppie non mettono in scena solo il disastro amoroso, ma anche un’Italia sentimentalmente ed economicamente sbilenca. Non è più solo la solita retorica dell’uomo traditore e della donna ferita, ma un nuovo, più scomodo equilibrio: quello in cui sono le donne a tenere in piedi la baracca — affettiva, logistica, e finanziaria — mentre gli uomini fanno i gradassi al villaggio, salvo poi andare in tilt quando sentono una frase come “Lo mantengo da tre anni” o “Sono io che pago tutto”. La virilità fragile esplode non tanto davanti a un bacio, ma davanti al bilancio. Il vero tradimento è scoprire che la partner ha fatto i conti, e li ha detti ad alta voce. È lì che il gradasso si accascia, che il simpatico da bar comincia a tremare come un’impresa individuale davanti all’Agenzia delle Entrate. Alcuni si sentono umiliati non perché sono stati lasciati, ma perché è stato reso pubblico che, in casa, l’unico investimento a lungo termine erano loro. E allora Temptation Island diventa anche questo: uno specchio inclemente di un Paese dove le donne spesso fanno da madri, banche, logopediste emotive, mentre gli uomini si arrampicano su scuse che non hanno più appigli. Non crolla solo la coppia. Crolla un’idea di maschilità a credito.
Poi c’è Valerio che non solo tradisce Sarah con la tentatrice Ary ma, giunti al falò da lui stesso invocato, ha la faccia da filosofo morale dell’autenticità tossica: “Non me ne pento, sentivo di volerlo fare”. Nessuno, in Temptation, aveva mai detto con tanta serenità una cosa tanto devastante. Non c’è più la categoria dell’errore: c’è solo la fedeltà a sé stessi, qualunque cosa voglia dire. La sincerità diventa l’alibi più feroce della nostra epoca.
Ma per fortuna c’è lui, il Grande Mediatore, il Virgilio delle corna, l’uomo che traghetta le anime perdute delle coppie italiane verso il Purgatorio del post-fidanzamento o, peggio, l’Inferno della riconciliazione. Da quattordici edizioni Filippo Bisciglia non cambia mai. È l’unico elemento stabile di Temptation. Per lui tutte le partecipanti sono bellissime e tutti i farneticamenti dei falò, anche i più deliranti, sono perfettamente intellegibili. Un monolite emotivo in pantaloni loose e camicia sbottonata, con la voce roca da doposbronza esistenziale e l’animo pacato da impiegato dell’anagrafe dei sentimenti.
Il suo ruolo non è semplicemente quello del conduttore. È l’oracolo dell’inesprimibile. Filippo arriva sempre al momento giusto: quando lei sta per esplodere, lui si avvicina e sussurra “Sonia, ho un video per te”. Quando lui ha già capito tutto e vuole solo disintegrare la sua dose quotidiana di sdraio, Filippo lo chiama per nome — sempre con quel tono dolce ma imperativo, come un prete che ti obbliga con lo sguardo alla comunione anche se sa che non ti sei ancora confessato. È l’unico in grado di far piangere una persona con una semplice frase di tre parole: “Falò di confronto?”.
Ma soprattutto, Filippo ha un talento unico: non vede nulla. Beninteso: conosce a memoria tutti i video, ma quando li deve commentare, sembra cieco. Come se qualcuno gli avesse descritto la scena, ma male. Una volta dopo un bacio in bocca prolungato, commenta con un diplomaticissimo: “Hai visto delle immagini forti”. Altri baci, palpeggiamenti, probabili fellatio clandestine in modalità solo acustica (che lui depenalizza usando l’espressione “bacio”), immersioni sincronizzate tra le coperte, e lui chiede: “Hai notato un avvicinamento?”. È come se conducesse Temptation Island in braille. Verrebbe da chiedergli, per citare le vedute del grande Antonio rispetto al giusto settore dello stadio da cui seguire le partite del Napoli (curva vs. tribuna Posillipo): Filippo, i video li stai guardando o te li stai facendo raccontare?
Eppure è proprio in questo la sua grandezza. Bisciglia non giudica mai. Non parteggia, non consiglia, non urla. Al massimo inclina la testa. È lo specchio che non distorce, la superficie che accoglie tutto senza commentare. In un mondo dove tutti dicono la loro, lui ascolta. E quando parla, lo fa per sottolineare l’ovvio con la delicatezza di chi maneggia cristalli: “Hai visto delle immagini che ti hanno fatto stare male”, “Hai detto di non volerti fare del male, ma ti sei fatta del male”. È l’unico essere umano in Italia capace di parlare per dieci minuti usando solo circonlocuzioni emotive.
Come il vecchio veggente cieco della mitologia greca, Tiresia, anche Filippo vede tutto senza guardare, conosce la verità ma non la pronuncia mai del tutto, lascia che siano gli altri a perdersi nel labirinto delle proprie azioni mentre lui assiste, imperturbabile, con lo sguardo perso nel punto in cui la psicologia pop si fonde con la metempsicosi da villaggio turistico.
Bisciglia è cieco nel modo giusto: selettivamente. Guarda i tradimenti, li monta, li introduce, ma non li interpreta. Sa, ma non spiega. Non dice: “Ti ha tradito”. Dice: “Hai visto delle immagini che ti hanno turbata”. Non dice: “Non ti ama più”. Dice: “Ti aspettavi altro, vero?”. È l’enigmatico sacerdote del disastro relazionale, il solo che può accompagnarti alla scoperta dell’evidenza come se fosse un mistero iniziatico.
E proprio come Tiresia a Tebe, Bisciglia non è lì per risolvere, ma per presenziare alla rovina. Gli antichi consultavano l’oracolo quando era già troppo tardi. Le coppie chiamano Filippo al falò quando sanno già che finirà male. Ma lo vogliono lì, come testimone. Perché senza testimone, il dolore non è valido.
In un’Italia che rimuove il conflitto e affoga l’introspezione nella retorica delle “vibes giuste”, Filippo è l’ultimo custode del disastro emotivo in diretta. Non per impedirlo, ma per conferirgli uno spessore sacro. La sua cecità è funzionale: non giudica perché non vede. Non vede perché sa già tutto. È Tiresia in infradito, ma più utile di cento podcast sul poliamore e di mille articoli su Temptation scritti da gente che non lo ha mai visto.
C’è un momento preciso, in una puntata media di Temptation Island, in cui la trasmissione smette di essere solo intrattenimento estivo e si trasforma in qualcosa di molto più profondo, disturbante, quasi metafisico. È l’istante in cui qualcuno viene sgamato. Tradimento conclamato, immagini inequivocabili, bocca troppo vicina, carezza furtiva, confessione sussurrata sotto le stelle artificiali di un resort a quattro stelle e mezzo. Il falò si accende, la compagna guarda lo schermo, il compagno guarda in basso. E inizia il crollo.
Non importa chi sei. Puoi essere un ingegnere nucleare, un consulente finanziario plurilingue, un poeta di corte, una terapeuta bilingue della Gestalt, puoi avere letto tutto Schopenhauer, puoi aver letto e capito Proust in lingua originale o coltivare bonsai da quando avevi dodici anni. Nulla ti salva. Se hai tradito, e se sei stato scoperto mentre lo facevi, soprattutto mediante quelle tracce terrificanti fatte di scampoli di messaggistica istantanea che doveva restare tale ma che invece sarà stampata per sempre nell’inchiostro anticipatissimo della memoria di un partner ingannato, allora parlerai quella lingua lì. Quella dell’italiano ferito e in trappola, che arranca nei meandri della giustificazione impossibile come un tonno infilato nella tonnara.
Le posture, le frasi fatte, il tremolio nella voce, le mani che si agitano come a pescare parole da un mare che ormai ha solo meduse — tutto riconduce a un archetipo eterno: il colpevole messo a nudo. E lì, in quel momento, non sei più il tuo curriculum, non sei più il tuo armadio di abiti su misura o il tuo master a Londra. Sei esattamente come quello che due stagioni fa diceva “Me so’ solo appoggiato, ma non l’ho toccata”. Sei uguale a quello che, tra le lacrime, giurava “Giuro su mamma mia che ti amo ancora”.
Ed è in questa fratellanza tra traditori che il programma trova la sua forza più inquietante. Perché crea un cortocircuito di riconoscimento: lo spettatore ride, ma poi si ferma, e pensa. “E se capitasse a me?”, “E se mi avessero filmato anche solo in quell’attimo?”. È teatro greco travestito da intrattenimento: un’esposizione rituale del peccato, una caduta pubblica che consente la catarsi collettiva. Il traditore, nel suo balbettare disperato, è l’Edipo postmoderno che scopre di avere ucciso l’amore senza rendersene conto. La tragedia non sta nel tradimento, ma nell’essere stati video-ripresi nell’attuarlo. E allora il falò non è solo un falò. È il giudizio finale. E noi, dal divano, siamo i giudici e i colpevoli.
E in quell’attimo sei identico al più becero fidanzato di provincia un attimo prima di provare un brivido freddo sulla schiena, come se ti avessero appena infilato un Mikado semicongelato giù per la canotta, sei inchiodato sulla stessa croce comportamentale, sei spogliato dell’unicità che ti eri costruito. È una livella morale e semiotica che fa paura: la punizione è uguale per tutti, perché uguale è il gesto. E la punizione è il ridicolo. Ma proprio lì, in quella uniformità disperante, Temptation diventa tragedia greca: non c’è scampo, non c’è ironia, solo la catarsi brutale di un pubblico che riconosce se stesso nei peggiori e, per un attimo, si purifica ridendo.
Forse, alla fine di Temptation Island 2025, mentre l’ultima sigla scorre lenta e malinconica sulle immagini di falò spenti, sedie vuote e baci che non hanno fatto in tempo a diventare promesse, ci resta solo una certezza: l’amore è un format. Con delle regole, delle varianti, dei cliché e degli imprevisti. Un format che si ripete, ma non per noia — per necessità. Si ripete perché non abbiamo ancora trovato un modo migliore per raccontarci, per farci del male, per chiederci scusa, per confondere desiderio e trauma, per ballare al buio con persone che non ci conoscono e poi dire: “Mi sento me stesso”. L’amore è un format perché ci piace pensare che cambiando i nomi dei protagonisti, il copione cambi. Ma non cambia.
Cambia la stagione, cambia il contesto — l’hotel diventa resort, le tentatrici si laureano, i fidanzati fanno meditazione — ma poi si arriva sempre lì: al momento in cui uno dice “ho bisogno di tempo” e l’altra risponde “io ho bisogno di rispetto”. L’amore è un format anche perché, come ogni buon programma, si adatta al mercato: oggi è tossico, domani è consapevole, dopodomani è aperto ma con confini. Lo riempiamo di parole nuove — boundaries, ghosting, love bombing, closure — ma il contenuto resta antico, faticoso, tragicamente simile a quello che ci raccontavano le nonne, ma senza il pane con la Nutella. L’amore è un format perché ha bisogno di pubblico, di messa in scena, di una regia invisibile e di una canzone triste in sottofondo. E proprio come la televisione, come l’estate, come noi, si consuma e si rinnova con regolarità deprimente e miracolosa. Va in onda. Fa ascolti. Viene smontato. Ricomincia. Perché a dispetto di tutto — dei falò, dei baci rubati, dei video tagliati male, dei tradimenti in bagno — vogliamo ancora crederci. Vogliamo ancora tornare. Anche solo per vedere se stavolta, nel prossimo episodio, qualcuno resta.
Il vero significato di Temptation Island non ha nulla a che fare con i tentatori. Non sono loro — i palestrati dal cuore d’oro, le modelle di parei con la media del 28 e il tatuaggio giapponese dietro la scapola — a rappresentare il pericolo. Non è il bacio in piscina, né la carezza sotto le stelle a distruggere una coppia. Il vero tentatore, l’Altro che ci mette davvero in crisi, siamo sempre e solo noi stessi. È la versione di noi che emerge quando nessuno ci controlla. O, meglio, quando ci osservano troppo bene. Temptation Island funziona come una lente d’ingrandimento emotiva: prende individui medi, li separa dal contesto, li lascia liberi in un eden prefabbricato e li costringe a fronteggiarsi. Non col single dal fisico scolpito o con la tentatrice che tifa (miracolosamente) per la nostra stessa squadra, perfino se quella squadra è la Lazio. No: il vero nemico è la parte di noi che non sa cosa vuole, che ha bisogno di essere desiderata per sentirsi viva, che ha fatto finta per anni, che ha represso, ignorato, camuffato, e adesso esplode. Temptation non racconta il tradimento: racconta il collasso dell’immagine che abbiamo costruito di noi stessi dentro una relazione.
Ma se siamo noi a rovinarci — con le parole sbagliate, con i silenzi velenosi, con il bisogno disperato di uno specchio in cui piacersi di nuovo — allora siamo anche noi quelli che possono salvarci. Non c’è bisogno del falò, né di Filippo Bisciglia che ci guarda con l’espressione del Cristo tra i delfini. Bastano due persone che, una volta uscite dal villaggio, smettano di recitare il ruolo che si erano assegnate. Che si parlino senza microfoni. Che accettino che amare non significa solo restare, ma restare vedendo. E scegliendo di farlo di nuovo. Ecco il segreto: non esiste tentazione più grande di quella di andarsene. Ma non esiste atto più radicale, più controintuitivo, più televisivamente scorretto, che uscire fuori campo e restarci.