Si manifesta soprattutto in persone di 50-60 anni, è aggressivo, cresce in fretta e resiste alle terapie. Per questo ancora oggi la sopravvivenza media dei pazienti è di circa un anno e mezzo

Ancora oggi, purtroppo, è questa in media la sopravvivenza dei pazienti a cui viene diagnosticato uno dei tumori più aggressivi e tuttora molto difficili da trattare, dal quale assai raramente si guarisce.



















































«È un tumore che cresce rapidamente in un’area molto delicata come il cervello, dove intervenire non è mai semplice: con il bisturi, i farmaci o la radioterapia bisogna ben bilanciare i possibili benefici e gli effetti collaterali» spiega Enrico Franceschi, direttore dell’Oncologia del sistema nervoso all’IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna.

Così da parecchi anni la cura migliore possibile è sempre la stessa, in Italia come nel resto del mondo: rimozione chirurgica (quando possibile), radioterapia e chemioterapia. Quasi 30 anni fa sono stati scoperti e introdotti come cure standard farmaci capaci di attraversare la barriera ematoencefalica, che per anni era stato un ostacolo insormontabile e rendeva la chemioterapia del tutto inefficace. Nuove tecniche operatorie e nuovi strumenti diagnostici hanno poi consentito di fare dei progressi che sono però ancora lontani dai successi ottenuti contro altre forme di cancro.
A complicare le cose c’è il fatto che come altre neoplasie cerebrali il glioblastoma cresce in fretta, viene diagnosticato in fase avanzata ed è resistente a molti farmaci.
Così a cinque anni dalla diagnosi è vivo soltanto il 5% dei pazienti, che in media scoprono la malattia a 50-60 anni.
 
I ricercatori, però, non mollano e qualcosa si muove.
«Abbiamo fatto progressi nella conoscenza di alcune caratteristiche che portano il glioblastoma a svilupparsi e a crescere: questo è sempre il primo passo per poter mettere a punto dei farmaci in grado di contrastare i meccanismi che favoriscono il tumore – dice Franceschi -. Così abbiamo capito che sulle aspettative di vita però intervengono in maniera significativa le caratteristiche genetiche: se è presente una metilazione del gene MGMT, i malati tendono a rispondere meglio ai trattamenti oncologici e hanno un’aspettativa di vita significativamente più lunga.
 
Per questo oggi è estremamente importante avere informazioni sul quadro molecolare del glioblastoma di ciascun paziente (ovvero le caratteristiche genetiche, ndr) sia per capire meglio la prognosi, sia per valutare il possibile uso di farmaci mirati che si sono rivelati utili in una percentuale bassa di persone (il 10% circa), ma per i quali però c’è un beneficio evidente».
Un’altra timida (per ora) speranza si è aperta l’anno scorso quando sono stati pubblicati i risultati preliminari, su soli tre pazienti, di una sperimentazione tutt’ora in corso con la terapia CAR-T (che ha già rivoluzionato la storia di alcuni tumori del sangue, candidando a una possibile guarigione pazienti ai quali restavano pochi mesi di vita): «I dati lasciano intravedere la possibilità che la CAR-T possa avere un ruolo in futuro nel trattamento dei tumori cerebrali, e nello specifico contro il glioblastoma che a oggi ha spesso una prognosi severa, ma la strada è ancora lunga» conclude l’esperto. 

10 dicembre 2025 ( modifica il 10 dicembre 2025 | 16:13)