Estate 2007. A Valencia, in Spagna, si svolge la 32ma edizione dell’America’s Cup e tutta l’Italia fa il tifo per i team nazionali: Luna Rossa, Mascalzone Latino, +39 Challenge. Giovanni Veronesi ha all’epoca 45 anni, è un regista di commedie di successo reduce dai super incassi di Manuale d’amore 2.
La mamma malata se n’è andata da un mese e suo padre Giannino, ingegnere in pensione appassionato di mare e velista esperto, esprime il desiderio di seguire da vicino la prestigiosa competizione tra barche. Per accontentarlo Giovanni, a sua volta campione di vela da modellista, ha un’idea: ce la racconta svelando un inaspettato lato sentimentale, delicato, della sua personalità che nel cinema si esprime in un sano disincanto, a volte nel gusto della dissacrazione.
Che idea ebbe?
«In quel periodo Luna Rossa era oggetto di un autentico culto di massa e io proposi a La7 di realizzare un reportage sull’America’s Cup (sarebbe poi diventato il corto Viaggio nel tempo, ndr). Chiesi a papà di accompagnarmi e passammo insieme un’estate indimenticabile: anche lui era malato da cinque anni e per lui sarebbe stata l’ultima, ma per me fu la più bella della vita».
Cosa l’ha resa tale?
«La possibilità che ho avuto di vedere mio padre felice. Di giorno si tuffava, nuotava senza risparmio, risaliva agile dalla scaletta della barca. La sera si vestiva bene con tanto di foulard, andava a cena fuori e incontrava le persone. A 81 anni, si comprò la prima camicia a fiori ritrovando un vigore e una fame di vita impressionanti. Arrivammo a Valencia dopo aver passato qualche giorno nella casa di famiglia che lui stesso aveva progettato a Roccamare, nel grossetano. Una casa che papà adorava e che gli somigliava».
In che senso?
«Era una costruzione leggera di cemento e vetro, costruita su modello della famosa casa sulla cascata dell’architetto Frank Lloyd Wright, il suo mito. Anche lì, prima di partire per Valencia, trascorremmo delle giornate indimenticabili svegliandoci insieme, parlando delle nostre estati passate, di mia madre e di tante altre cose tranne la malattia di papà: per un tacito accordo tra noi, non venne mai menzionata. C’era spazio solo per il piacere di stare insieme».
E durante quella vacanza ha scoperto qualcosa che non sapeva di suo padre?
«Ho capito quanto piacesse alla gente. Aveva seminato bene: tutti lo amavano, nessuno lo invidiava o aveva conti in sospeso con lui. Non me n’ero mai reso conto».
A Valencia, nel corso dell’America’s Cup, suo padre fece incontri interessanti?
«Nel capannone di Luna Rossa non venne nemmeno fatto entrare, in compenso l’equipaggio di Mascalzone Latino fu molto ospitale. Proprio come il team di Shosholoza, la barca sudafricana. Ci invitarono a cena con l’ambasciatore e io, dal mio tavolo, guardavo papà chiacchierare animatamente con lui. Non conosceva una parola d’inglese eppure riusciva a comunicare benissimo…».
E con lei parlava di vela?
«Certo, il vero appassionato era lui. Un purista, contrario all’uso del motore. Anni prima aveva posseduto una barca e mi aveva trasmesso l’amore per quello sport e la voglia di prendere la patente nautica. Nel mio film Luna rossa c’è una lunga intervista allo skipper Paul Cayard ma anche papà è presente in tante inquadrature. La più bella è un suo tuffo spettacolare».
In quel 2007 le parlava mai della sua giovinezza?
«Sì, amava rievocare le sue estati di ragazzo in Romagna, a Riccione e Igiea Marina. Come tutti quelli della sua generazione aveva vissuto la guerra, imparando a superare ogni avversità e a noi figli raccomandava: “Non vi lamentate troppo, la vita può essere molto dura”».
Papà aveva approvato la sua decisione di lavorare nel cinema?
«Era un uomo illuminato e, pur essendo preoccupato per la precarietà che la mia scelta comportava, non mi ha mai messo i bastoni tra le ruote. Come non li ha mai messi a mio fratello (il famoso scrittore Sandro Veronesi, ndr). Quando debuttai nella regia con Tutta colpa del paradiso dopo una lunga esperienza da sceneggiatore, il film andò bene e papà capì che me la sarei cavata».
Veniva mai a trovarla sul set?
«È capitato, ma lui si annoiava. I tempi morti della lavorazione non gli piacevano però era curioso e faceva mille domande. Voleva sapere da dove venivano le idee».
Aveva fatto amicizia con qualcuno del suo ambiente?
«Considerava Francesco Nuti un altro figlio. Per dieci anni abbiamo passato Natale e Capodanno tutti insieme…Con Francesco c’è stata una convivenza emozionale».
Deve a suo padre il senso dell’umorismo?
«Penso di averlo ereditato da mia madre. A lui piaceva soprattutto ridere e credo di averlo divertito».
Si dice che quando i genitori invecchiano diventano un po’ i figli dei propri figli. Anche nel vostro caso?
«Non direi. Non ho mai visto i miei genitori trasformati in bambini. Entrambi se ne sono andati troppo presto insegnando a noi figli la dignità, anche della morte».
Qual è l’eredità più importante che ha ricevuto da suo padre?
«Il rispetto, la dignità del lavoro. Era convinto che amare il proprio mestiere valesse più di ogni successo o guadagno. Esortava noi figli a seguire le nostre passioni senza pensare ai soldi».
Perché nel 2010 ha dedicato il film “Genitori e figli – agitare bene prima dell’uso” ai suoi genitori «morti prematuramente a 80 anni»?
«Senza di loro sento un grande vuoto. Nel film c’è una scena in cui i bambini disperdono in mare le ceneri mischiate dei nonni. È ispirata alla nostra storia di famiglia e ripensarci mi riempie di tenerezza».
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