di
Simona De Ciero

Chiara Buratti racconta Massimo Cotto: «Uomo del rock della porta accanto». Musicologo, giornalista autore di libri intervista con Ligabue, Patty Pravo, Guccini, Fossati, Zucchero, Vasco Rossi, Renato Zero, Leonard Cohen

«Non è un peccato essere felici di essere vivi». Massimo Cotto direbbe questo oggi, a un anno dalla sua scomparsa, se potesse rivedere ancora una volta la moglie Chiara Buratti. Grande amore della sua vita. Madre del loro figlio Francesco, che proprio lo scorso San Valentino è diventato maggiorenne. E sua più grande complice durante gli ultimi 25 anni di vita. 
Lui, maestro della parola scritta, padre del genere libro-intervista (famose quelle fatte a Ligabue, Patty Pravo, Guccini, Ivano Fossati, Zucchero, Vasco Rossi, Renato Zero, Leonard Cohen) e voce radiofonica rock tra le più apprezzate d’Italia, facilmente citerebbe Darkness on the Edge of Town, tra gli album del suo artista del cuore, Bruce Springsteen, che ebbe la fortuna di incontrare e intervistare. Poi, aggiungerebbe anche «non dimenticatemi però, eh?». E allora eccola, Chiara Buratti, a mantenere quest’ultima promessa. E ricordare a tutti, come fa ogni giorno con se stessa, chi era suo marito. Massimo Cotto.

Chiara, come sta? (sorride).
«Cerco di trovare il lato positivo in ogni cosa, come mi ha insegnato Massimo. Ho raggiunto un livello inaspettato di lucidità che mi permette di prendere molte decisioni legate al presente mio, di mio figlio e di mia suocera, e che mai avrei creduto di avere».



















































Però, non ha risposto…
«Perché sono ancora molto frastornata e, a essere sincera, sto peggio adesso rispetto ai primi mesi senza Massimo. Eppure io come del resto nostro figlio e mia suocera, sentiamo fortissima la sua presenza e questo ci fa stare a galla».

Suo marito è morto il primo agosto 2024. Lei, però, dice spesso che in realtà, se n’è andato prima. Il 9 luglio, giorno in cui ha avuto l’attacco cardiaco.
«Sì, quando mi hanno permesso di vederlo, in terapia intensiva e il giorno dopo il ricovero, ho capito subito che non era lì, che non c’era più. Nonostante il dolore, però, ringrazio per quelle ultime tre settimane, durante le quali ho potuto toccare ancora le sue mani, baciarlo, e ripercorrere ogni attimo della nostra vita insieme».

Quando il suo Massimo è stato male, è stato portato all’ospedale Cardinal Massaia di Asti, dove lei stessa era ricoverata da tempo, per un problema di salute.
«Sì, lui era al primo piano, io al secondo. Venne a darmi la notizia del suo malore la nostra medica di famiglia, che è anche un’amica. Franci era in vacanza, per fortuna. Io avevo appena ricominciato a muovermi, in sedia a rotelle. Venivo da mesi molto faticosi e Massimo aveva annullato tutti i suoi impegni di lavoro per starmi accanto. Sognavamo le cose che avremmo fatto, appena fossi uscita di lì. E invece…».

Ha voglia di raccontare i vostri sogni?
«Volevamo viaggiare in tutto il mondo ma, paradossalmente, stavamo organizzando una vacanza in un agriturismo dell’astigiano a soli tre chilometri da casa. Un posto che Massimo adorava, e dove lui e nostro figlio Francesco andavano spesso a pranzo, durante il lungo periodo del mio ricovero».

Faceva così fatica, Massimo, ad allontanarsi dalla sua città natale, Asti?
«Fatica direi di no, ma la amava profondamente. Era una delle sue caratteristiche principali. Poteva girare ovunque, ma “casa” era la sua città».

Stride un po’ con l’animo rock che lo ha sempre rappresentato.
«Già. Per Massimo, però, essere rock significava essere sé stessi, non dimenticare le proprie radici e, soprattutto, essere brave persone; gente semplice, pronta a sorridere anche di fronte agli scossoni della vita. Direi che Massimo rappresenta l’uomo rock, ma della porta accanto».

Ed era anche una persona di fede.
«Molto, e ha continuato a frequentare la stessa parrocchia per tutta la vita. E poi ha sempre avuto un attaccamento fortissimo a sua madre; e anche questo stride con l’immagine del rockettaro duro e schivo, no? Massimo era così: vero. Prendere o lasciare».

Come vi siete conosciuti?
«È stato abbastanza buffo. Massimo mi incrocia in teatro, chiede di me in giro e poi, la prima volta in cui mi rivede, affronta la cosa, di petto. Siamo a una cena. A un certo punto tutta la tavolata si alza e se ne va. Io e lui restiamo basiti e scoppiamo a ridere. A quel punto Massimo mi dice: sei la donna della mia vita. Vuoi stare con me? Ti do un paio di giorni per rispondermi».

E lei cosa pensò?
«Risi. E nei 25 anni successivi non ho più smesso di sorridere».

Perché?
«Perché Massimo era tanto preciso e puntiglioso sul lavoro, quanto divertente e scanzonato nella vita. Non conosceva il rancore, tantomeno l’invidia. Pensi che, una volta, una persona gli rubò un format per la televisione, che poi venne prodotto. E lui non fece una piega».

Cosa disse?
«”Ho tante di quelle idee che non ho tempo di arrabbiarmi perché me ne hanno rubata una”. Non ho mai visto Massimo adirato, e non successe nemmeno in quella circostanza».

Che rapporto aveva con il lavoro?
«Con la scrittura, totalizzante. Era capace di scrivere un libro in tre giorni. Ed era meraviglioso vederlo creare. Sono molto grata di aver potuto lavorare su alcune sue produzioni».

Cosa rappresentava per lui la musica?
«Vita. Magia. Amava scavare nell’animo degli artisti, cogliere sfumature inedite, stranezze, paure».

E com’era, da padre?
«Diventare padre era un suo grande sogno. Abbiamo deciso di provare ad avere un figlio, cinque anni dopo l’inizio della nostra relazione e, quando accadde, la prima cosa che disse fu: “che bello, siamo incinti!”. Adorava usare questa espressione. È stato un padre amorevole, la cui priorità era aiutare Franci a diventare una persona felice. Del resto, l’ha fatto anche con me».

Come?
«Quando ci siamo conosciuti avevo 26 anni, ero molto seria e facevo fatica a lasciarmi andare. Massimo mi ha dato una chiave di lettura diversa della vita, e forse è proprio questo che oggi mi aiuta ad affrontare la sua assenza senza perdermi».

Però, era anche ipocondriaco.
«Più che ipocondriaco, un nostro amico medico lo definiva: catastrofista. Ogni giorno temeva di avere un male in qualche parte del corpo, tant’è che Giorgio, quando gli telefonava, gli diceva: ciao Massimo, oggi dove ce l’hai tumore?».

Giorgio Faletti, altro astigiano doc. Scomparso lui, poi, a causa di un tumore. E vostro amico di famiglia.
«Più un familiare direi. Posso farle una rivelazione?».

Certo.
«Dopo la morte di Giorgio, Massimo diceva di voler scrivere un articolo in sua memoria e titolarlo “era mio fratello”. S’immagini il piacere che ho provato, quando mi ha detto che questa intervista sarebbe stata inserita nella rubrica “era mio marito”».

Chiara, se adesso potesse parlare con Massimo, cosa gli direbbe?
«Torna a trovarci più volte che puoi perché qui è dura».


Vai a tutte le notizie di Torino

Iscriviti alla newsletter di Corriere Torino

3 agosto 2025