Talik Gvili parla dal sud di Israele: «Sappiamo che è nelle mani della Jihad, ma non è vero che non sanno dove sia, mentono per non parlare di disarmo e continuare a controllare la Striscia»

DALLA NOSTRA INVIATA
TEL AVIV –  La voce di Talik Gvili arriva da Meitar, dalle parti di Be’er Sheva, nel sud di Israele. Lei ha 55 anni ma gli ultimi due anni e due mesi non contano, o è meglio dire che contano più di tutti gli altri. Fanno parte di un tempo sospeso che contiene tutto e il suo contrario. Speranza e sgomento, ogni santo giorno. Suo figlio Ran — che lei chiama Rani e che il 7 ottobre andò incontro al suo destino come sergente maggiore della polizia nell’unità antiterrorismo d’elite Yasam — è l’ultimo ostaggio ancora intrappolato da qualche parte, a Gaza. Forse a Zeitoun, quartiere a sud di Gaza City, dove lo cercano in queste ore. Morto, dice l’esercito israeliano. Ma la prova provata non c’è, e una madre non dichiara la resa davanti a una parola. 
Lo immagina ancora vivo? 
«Ho uno 0,001 per cento di speranza che lo sia. Lo so, è pochissimo, ma io e la mia famiglia dobbiamo tenere accesa questa possibilità». 
Perché lo pensano morto? 
«Me lo hanno detto il 30 gennaio del 2024. L’esercito sapeva che lui era stato ferito in modo grave. Mi hanno detto che senza cure appropriate nelle sue condizioni non si poteva sopravvivere, e loro erano convinti che nessuno lo avesse curato. Ma magari non è andata così. Magari lo hanno curato. In ogni caso noi siamo qui. Lo aspettiamo. tutto il Paese lo aspetta». 
Suo figlio è diventato una specie di pedina sullo scacchiere internazionale. Gli accordi del 10 ottobre prevedono che la Fase 2 per Gaza cominci solo quando tutti gli ostaggi saranno tornati a casa. Ora è rimasto soltanto lui, ma Hamas da una parte e Stati Uniti dall’altra spingono per andare avanti… 
«Senza il suo ritorno non si andrà da nessuna parte. Nel nostro popolo il consenso è totale e trasversale. Destra, sinistra, religiosi e laici sono d’accordo: non accetteremo nessuna seconda fase se Rani non ci sarà restituito. Lui chiuderà il cerchio e nel suo nome ci sarà finalmente un cambiamento strategico in tutto il Medio Oriente. Me lo assicurano tutti i politici». 
Anche il premier Netanyahu? 
«Non ne abbiamo parlato in questi giorni ma lui me lo aveva promesso, e si è preso questo impegno più volte pubblicamente. Tutto Israele aspetta Rani, il Paese non può cominciare a guarire se lui non torna. E se Rani potesse dire la sua so che sarebbe contento di essere l’ultimo». 
In che senso? 
«Nel senso che lui era sempre il primo quando c’era da aiutare gli altri, e se ne andava solo quando tutti erano al sicuro. Anche da ostaggio sono sicura che avrebbe ragionato così: fate uscire prima gli altri, io vado per ultimo. Era un suo ragionamento tipico e noi, a casa, siamo orgogliosi di lui». 
Cosa sa delle ricerche? 
«Riceviamo aggiornamenti ogni giorno: oggi si scava qui e qui, da quest’ora a quest’ora… In queste ore lo cercano soprattutto a Zeitoun, in un’area controllata dalla Jihad islamica. Lo portarono lì quando lo rapirono. C’è una fotografia di lui caricato su una motocicletta. Sembra non cosciente…». Pensa mai all’ipotesi che non torni mai più? 
«Ogni tanto, sì, e la sola possibilità mi atterrisce. Sappiamo, appunto, che è nelle mani della Jihad, ma loro mentono, come Hamas. Non è vero che non sanno dove sia, come giurano. Stanno infrangendo le regole del piano di pace in modo intenzionale per non arrivare alla fase 2, per non parlare di disarmo e continuare a controllare la popolazione dei poveracci palestinesi di Gaza». 
Che cosa pensa quando vede la distruzione di Gaza? 
«Penso che questa guerra non l’abbiamo cominciata noi. Penso che se l’accordo andrà a buon fine e se Hamas accetterà il disarmo si potrà finalmente parlare di una vera ricostruzione della Striscia, in favore della gente di Gaza. Nessuno può rimanere indifferente o non essere addolorato davanti a quella devastazione ma il dolore e la devastazione hanno colpito anche noi. Chiedo io a lei: cos’ha pensato vedendo la distruzione dei nostri kibbutz?».
Qual è l’ultimo ricordo che ha di suo figlio? 
«Lui che mi dà un bacio e se ne va. Chiudo gli occhi e lo vedo che mi abbraccia. Era a casa in malattia, con una spalla fuori uso. Poteva non andare, invece appena è arrivato l’allarme si è infilato la divisa ed è uscito. Gli ho chiesto: ma dove vai con quella spalla così malmessa? E lui: non posso lasciare sola la mia Unità. È arrivato fino al kibbutz Alumin. Suo fratello l’ha chiamato mille volte, ha risposto solo pochi secondi alle 9.45 per dire: “Non posso parlare, sto combattendo, sono ferito. Ma non dirlo a mamma e papà…”».



















































12 dicembre 2025