di
Greta Privitera

Ali Rahmani: «Sono il figlio di una attivista: la lotta per un Iran libero è la nostra eredità. Mi manca tutto di mia madre»

Ali Rahmani ha compiuto 19 anni una settimana fa. Ci tiene a specificarlo: «Diciannove». Sa di essere giovanissimo rispetto all’enormità delle questioni di cui deve parlare, e a volte ai giovanissimi non si crede abbastanza. «Ma sono cresciuto in fretta», dice da Parigi, dove è in esilio. Ali e la gemella Kiana li ricordiamo nel 2023 a Oslo, mentre ritirano il Nobel per la Pace al posto della madre, Narges Mohammadi. Ieri l’hanno arrestata di nuovo, a Mashhad, in Iran.

Quando ha saputo dell’arresto?
«Trenta minuti dopo. Siamo molto preoccupati, appena ricevuta la notizia, papà è dovuto uscire a respirare: gli mancava l’aria. Io e mia sorella abbiamo un’eredità da difendere e in questi momenti sappiamo che dobbiamo essere forti. Quindi, da una parte sono il figlio spaventato, dall’altra sono la voce di mia madre e di tutti gli altri attivisti arrestati con lei, mentre celebravano il settimo giorno della morte dell’avvocato e attivista Khosrow Alikordi. Devono liberare tutti adesso».



















































Quando è stata l’ultima volta che vi siete sentiti?
«Tre giorni fa».

Che cosa vi siete detti?

«Abbiamo parlato di vita e delle prossime azioni da intraprendere con la Fondazione. Mia madre è incredibile, come tanti del nostro popolo. Da quando è stata fatta uscire dal carcere per motivi di salute, ha continuato la battaglia contro la repressione del regime. Sono figlio, sì, ma di un’attivista».

Che cosa intende?

«Abbiamo una relazione madre-figlio, ma tra di noi c’è la politica e la lotta per la democrazia in Iran. Quindi, nelle nostre conversazioni parliamo di cose quotidiane, ma anche della liberazione del nostro Paese».

Non l’ha sentita al telefono per anni, non l’abbraccia da oltre dieci. 
«Ora almeno ci chiamiamo, ma non è facile. Narges Mohammadi non è libera, è solo fuori dalla cella. Il regime controlla tutto. Le nostre chiamate si interrompono all’improvviso, ci sono continue interferenze. La Repubblica islamica si insinua nella nostra vita quotidiana per rendere l’esistenza un inferno. Mia madre riceve minacce di morte, è seguita, insultata. Qualche settimana fa, le forze del regime le hanno detto: “Mohammadi, è ora di tornare in prigione”. Lei: “Se volete la mia libertà, venite a prenderla. Io non ve la do”».

Perché un anno fa l’hanno fatta uscire di prigione, secondo lei?

«Perché la mia famiglia, gli iraniani, Amnesty International, Reporter senza frontiere, la Lega dei diritti umani e la Fondazione Nobel abbiamo fatto una pressione massiccia. Ovviamente il Nobel per la pace ha contato molto. Ma bisogna ricordare che la Repubblica islamica è astuta. La sua liberazione si è inserita in un contesto geopolitico in cui gli ayatollah dovevano tenere un profilo basso: liberarla era un segnale».

Com’è essere suo figlio?
«Un orgoglio, ma soprattutto una grande responsabilità. È difficile svegliarsi e chiedersi se la propria madre sia viva, o se potrà parlarle al telefono. O se tornerà in prigione. Ieri, si è avverato un nostro incubo».

Che cosa le manca di lei?

«È una domanda personale?».

Lo è.
«Ho una lunga lista. Il suo sorriso, il suo amore, i piatti che mi cucinava, anche se non è una grande cuoca, ma una grande attivista. Mi mancano anche le sue feste militanti tra politica e balli scatenati».

13 dicembre 2025