di
Roberto Saviano

Lo scrittore interviene sulla proposta della norma, presentata da una deputata di Fratelli d’Italia, sull’estensione dell’articolo 416 bis che introduce il reato di «apologia e istigazione» dei comportamenti mafiosi

C’è una teoria rozza, antica e sempre pronta a riemergere quando la politica smette di comprendere la realtà: raccontare equivale a promuovere il male. È una teoria volgare perché confonde la descrizione con l’adesione, lo sguardo con la complicità, la narrazione con la propaganda. È su questa base che nasce la proposta di legge presentata da Maria Carolina Varchi, deputata di Fratelli d’Italia. La proposta di legge prevede l’estensione dell’articolo 416 bis introducendo il reato di «apologia e istigazione» dei comportamenti mafiosi. La norma punirebbe con 6 mesi/3 anni di carcere e multe fino a 10 mila euro chiunque, anche attraverso opere artistiche, media, musica o social, rappresenti o «esalti» la criminalità organizzata. Le pene sarebbero aggravate se il contenuto fosse diffuso tramite stampa o strumenti digitali. 

Di fatto, la legge esporrebbe fiction, libri, canzoni, post online al rischio di sanzioni penali e il confine tra racconto, analisi e apologia resterebbe vago e discrezionale. Una proposta che va chiamata con il suo vero nome: legge Omertà, e non perché protegga il silenzio mafioso in modo diretto, ma perché trasforma il racconto del crimine in un sospetto penale senza intaccare il potere criminale, colpendo invece chi lo osserva, chi lo racconta, chi lo rende intelligibile. 



















































Inserire nell’articolo 416 bis il reato di «apologia» esteso alla rappresentazione culturale significa produrre un effetto devastante: impedire di parlare del male se non nei linguaggi autorizzati dal potere. Secondo questa logica, della criminalità organizzata possono occuparsi solo i tribunali, solo le sentenze, solo i giudici e magari qualche politico, che scriverà un libro in cui pretende di spiegarci cosa sia, per fare un esempio a caso, la mafia nigeriana. 

Tutto il resto — arte, letteratura, cinema, musica — diventa una zona grigia, potenzialmente criminale. Non serve particolare acume per capire che si tratta di una forma di gravissima censura mascherata da tutela morale e la storia ci viene in soccorso per mostrarci quanto questo meccanismo sia stato già ampiamente adoperato. 

Nell’Ottocento, Gustave Flaubert fu processato per Madame Bovary: accusato di diffondere l’immoralità perché aveva osato raccontare l’adulterio senza condannarlo apertamente. Il processo a Madame Bovary nel 1857 è uno snodo fondamentale e la difesa di Flaubert fu netta: rappresentare non significa glorificare. Anzi, l’opera mostra la rovina morale e materiale di Emma Bovary, ma senza sermoni, senza giudizi esterni. Proprio questa assenza di moralismo fu ritenuta scandalosa: il lettore doveva essere guidato, non lasciato libero di comprendere. 

Lo stesso schema si ripete con il naturalismo e il verismo. Émile Zola fu attaccato per aver reso «affascinante» la miseria, la prostituzione, l’alcolismo. L’Assommoir venne accusato di trasformare il degrado in spettacolo. In realtà, Zola faceva esattamente l’opposto: mostrava come la miseria distrugge i corpi, le famiglie, i destini. Ma lo faceva dall’interno, senza edulcorare, senza filtri morali. Ed è questo che spaventava: non il fascino, ma l’accessibilità. Anche Victor Hugo, con I miserabili, fu accusato di nobilitare criminali e reietti. Jean Valjean, un ex forzato, diventa un uomo giusto: per molti questo era intollerabile perché significava ammettere che il male non è una categoria ontologica, ma una condizione storica, sociale, umana, e che comprenderla significa mettere in discussione l’ordine che la produce. 

E Oscar Wilde finì in prigione dopo che Il ritratto di Dorian Gray venne bollato come opera corruttrice: non perché spingesse al vizio, ma perché osava mostrarne il fascino, la seduzione, la decomposizione morale. Wilde lo scrisse con chiarezza: «Non esistono libri morali o immorali. Esistono libri scritti bene o scritti male». Ma il potere non sopporta ciò che non controlla, soprattutto quando illumina le sue ipocrisie. La legge Omertà si iscrive in questa tradizione: usare la morale come clava, fingere di combattere il male mentre si colpisce la sua rappresentazione. 

Ma c’è un punto che questa proposta finge di non capire, o che sceglie deliberatamente di ignorare: raccontare il male non significa sostenerlo. Aristotele, nella Poetica, spiega che la rappresentazione del tragico serve alla catarsi: comprendere la paura e la pietà, attraversarle per non esserne dominati. Il male narrato non è un modello da imitare, ma un’esperienza da comprendere. Da sempre la letteratura esplora il fascino del male non per celebrarlo, ma per smontarlo, per mostrarne il prezzo, il vuoto, la distruzione che porta con sé. 

Ma l’omertà porta con sé conseguenze disastrose per la collettività perché, come ha sostenuto James Hillman, il male che non viene compreso non scompare, ma ritorna sotto forma di sintomo. È una tesi che attraversa molti suoi libri, in particolare Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio e Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino: ciò che viene rimosso, moralizzato o ridotto a mostruosità esterna non viene elaborato psichicamente e quindi si ripresenta, deformato e più violento. 

Per Hillman il punto non è capire «perché esiste il male», ma che cosa ci dice, che funzione svolge nella psiche individuale e collettiva. Non comprenderlo significa condannarsi a subirlo. Questa linea di pensiero trova una formulazione limpida in Hannah Arendt quando afferma: «Comprendere non significa giustificare» («Understanding doesn’t mean condoning»). Arendt lo scrive esplicitamente nell’introduzione a Eichmann a Gerusalemme. La banalità del male, e torna sul punto anche in La vita della mente. Capire, per Arendt, è un atto politico e morale necessario: significa fare i conti con la realtà così com’è, senza consolazioni. Non capire, al contrario, è il primo passo verso la ripetizione del male, perché ciò che non si pensa diventa meccanico, amministrativo, banale. 

Dostoevskij porta questa intuizione dentro la letteratura. Non esiste una frase unica e scolpita in forma di aforisma, ma il senso è chiarissimo nei Quaderni e taccuini 1860-1991, nelle lettere e soprattutto nei grandi romanzi: raccontare il crimine significa esplorare il punto estremo a cui può arrivare l’uomo. In una lettera del 1867 scrive che l’uomo è «un essere capace delle più alte vette e degli abissi più profondi», e Delitto e castigo non è la celebrazione dell’omicidio, ma l’indagine radicale su ciò che accade quando un’idea astratta prende possesso di una coscienza. Dostoevskij racconta il male non per assolverlo, ma per misurarne il prezzo interiore, la devastazione psichica, la colpa che non può essere cancellata. 

È esattamente questo che l’Inquisizione non tollerava. Nella cultura inquisitoriale il peccato poteva essere nominato solo se astratto e immediatamente condannato: il male doveva essere concettuale, mai vissuto, mai incarnato in personaggi complessi, mai reso comprensibile. Le opere che descrivevano il peccato senza una condanna esplicita e immediata venivano considerate pericolose, perché permettevano al lettore di entrare nella scena del male, di comprenderne le motivazioni, le seduzioni, le contraddizioni. 

È il motivo per cui i testi narrativi, teatrali o poetici erano più sospetti dei trattati morali: mostravano, invece di predicare. Del resto, il fascino del male è una costante dell’umano. Fingere che non esista non lo elimina: lo rende più potente, più misterioso, più attraente. È il silenzio che mitizza, non il racconto. È l’assenza di parole che crea leggende. Dire che Gomorra – La serie, Romanzo criminale, Suburra, Mare fuori siano apologia significa non averli capiti, perché queste opere non vendono il crimine: mostrano il suo costo, la sua ferocia, la sua sterilità emotiva

Mostrano che il potere mafioso non è libertà ma prigionia, non è successo ma condanna. La legge Omertà proposta da Fratelli d’Italia, invece, rovescia il problema: non combatte il crimine, combatte chi lo racconta. Trasforma la cultura in una zona sorvegliata, la narrazione in un rischio penale, il pensiero critico in un sospetto. Ma a ben vedere, questo è proprio il sogno di ogni potere autoritario: non eliminare il male, ma impedire che se ne parli liberamente. Ridurlo a materia tecnica, giudiziaria, sterilizzata. Sottrarlo allo sguardo collettivo. Ma c’è ancora dell’altro che sfugge a questi dilettanti dell’antimafia, e cioè che la mafia prospera nel silenzio, non nella narrazione. Prospera dove nessuno racconta, dove nessuno spiega, dove nessuno mostra i meccanismi del dominio. Dove nessuno osa nominare i criminali, i cui nomi non si pronunciano per paura o peggio, per rispetto. E quindi la legge Omertà non difende la legalità, ma il silenzio

E ogni volta che il silenzio viene imposto per legge, il potere criminale non perde forza, anzi, ringrazia. E dunque, quando oggi si parla di «fascinazione del male», si ripete lo stesso riflesso inquisitoriale perché raccontare il male non significa sedurre al crimine, ma rendere visibile, intelligibile, dicibile. È questo che viene temuto: non il male in sé, ma la possibilità che venga compreso e dunque criticato alle radici. Certe proposte di legge – tra le più gravi e violente della storia repubblicana – che mirano a colpire non l’atto criminale, ma la sua narrazione, passeranno agli annali come leggi inquisitoriali, perché ripropongono l’illusione che, cancellando il racconto, si cancelli la realtà. Ma la storia della letteratura, da Dostoevskij a Flaubert, da Zola a Hugo, dimostra il contrario: ciò che non si racconta ritorna, e ciò che non si comprende si ripete. Raccontare non è giustificare. È l’unico modo per non mentire.

13 dicembre 2025 ( modifica il 13 dicembre 2025 | 07:30)