Non si è mai preparati a perdere la persona che si ama, meno ancora quando si hanno solo 44 anni e due figli di 11 e 15 a cui spiegare che il loro papà se ne sta andando per sempre. Isabella Maria Streicher, tedesca di Monaco, era venuta in Italia subito dopo la Maturità, per studiare alla scuola di liuteria, e lì ha conosciuto Luca, che in quell’istituto insegnava. Si sono amati per tanti anni: insieme hanno vissuto prima a Milano, poi a Trento, la città dove lui era nato, e lì hanno cresciuto i loro due bambini.

Per anni hanno lavorato insieme nel loro laboratorio di liuteria, realizzando strumenti di altissimo livello. «Nel suo settore, Luca era molto conosciuto», ci spiega Isabella. «Col tempo, però, il suo lavoro, da passione, si è trasformato in ossessione: non esistevano più i fine settimana, c’era sempre da fare anche di sera. A tanta gente capita di non riuscire a smettere di lavorare: si pensa di essere immortali. Ma ci si può ammalare, come è successo a mio marito».

Dopo i primi malesseri e diversi campanelli d’allarme, difficili da cogliere e interpretare, è arrivata la diagnosi, terribile: un tumore aggressivo, un glioblastoma non operabile aveva colpito il cervello di Luca. «La nostra era una vita di corsa: io mi dividevo fra il lavoro e le esigenze dei bambini, li portavo ai compleanni, dal pediatra: pensavo a “funzionare”, dovevo farlo. Mio marito lavorava ininterrottamente: aveva un impiego in proprio, una pressione importante quando si ha una famiglia da mantenere. La nostra era una giostra da cui era difficile scendere. Ma, in ospedale, quando ha saputo che la sua vita correva verso la fine, anche mio marito si è reso conto che era una routine pericolosa».

Di colpo, tutto è cambiato, e Isabella ha dovuto trovare il coraggio di spiegare ai suoi figli che il padre stava morendo: «È stato difficile, ma liberatorio, anche per loro, che avvertivano la mancanza di chiarezza e si sentivano disorientati. Luca non voleva dire loro la verità: preferiva che rimanesse loro il ricordo di un papà invulnerabile. Ma ero accompagnata da una brava dottoressa, che mi aveva spiegato che, per elaborare il lutto, era importante che i bambini sapessero quello che stava succedendo, vedessero il loro papà che cambiava a poco a poco e si ritirava in un altro mondo».

Luca aveva tanti amici, «aveva seminato bene nella sua vita», dice Isabella, e mentre lui si spegneva, a lei venne l’idea di creare un gruppo di WhatsApp per aggiornare tutte le persone che tenevano a lui e gli volevano bene. Lo chiamò «Luk». Era il 2017: quei gruppi erano ancora una novità, ma i «Lukonauti» diventarono presto un’ottantina. «Appena condividevo un aggiornamento, mi tornavano indietro centinaia di messaggi di supporto e affetto. I nostri amici hanno cominciato ad aiutarci tantissimo e non lo lasciavano mai solo». Il sostegno era anche pratico: «Non avevo tempo né testa per fare la spesa e cucinare, quindi quando mi chiesero come poter tornare utili, dissi ai nostri amici di preparare qualcosa da mangiare per i bambini. Portarono ragù da surgelare, torte, piatti cucinati con amore. Un’amica di mia figlia, quindici anni, ci portò due teglie di lasagne vegetariane, spiegandoci che, così, avremmo avuto la cena pronta scaldando semplicemente il forno. Poi ci sono state mamme che andavano a prendere i miei figli da scuola e li tenevano a dormire a casa loro, un amico avvocato che mi ha spiegato le questioni legali, un altro che mi accompagnava quando dovevo parlare con i medici. Ognuno ha contribuito nel proprio modo».