di Chiara Amati
Sul Times, il giornalista britannico Giles Coren ha dichiarato che «l’Unesco si è lasciata raggirare riconoscendo alla cucina italiana uno status culturale speciale, quando la migliore del mondo è qui da noi»
«Il riconoscimento assegnato questa settimana dall’Unesco alla cucina italiana come patrimonio culturale immateriale dell’umanità era prevedibile, servile, ottuso e irritante. Da quando scrivo di ristoranti combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia, mangiatori di fiori di loto con palati da bambini viziati, che all’inizio degli anni Novanta trasferirono le loro residenze estive in Toscana, dopo che il successo volgare di Un anno in Provenza di Peter Mayle aveva reso il sud della Francia “plebeo”».
Giles Coren*, giornalista, critico gastronomico e opinionista britannico, noto soprattutto per uno stile provocatorio, sarcastico e deliberatamente irriverente – al The Times e al The Sunday Times, i giornali per i quali scrive, si è fatto una reputazione come penna polemica più che come critico vero e proprio – non deve avere ben digerito l’ufficializzazione della cucina italiana a patrimonio culturale immateriale che l’Unesco le ha assegnato mercoledì 10 dicembre. Anzi, proprio non gli è andata giù: tanto che sul Times prende di mira l’immaginario che «una certa borghesia anglosassone» avrebbe costruito attorno all’Italia rurale e gastronomica. Quella fantasia fatta di casolari in rovina che diventano ristoranti «autentici», di cibo miracoloso solo perché locale, di vino della casa a fiumi e di conti ridicolmente bassi. Si tratta di una caricatura feroce del turismo colto che cerca l’«essenza» italiana come se fosse un’esperienza esotica, erotizzata e fuori dal tempo, dove il Paese viene immaginato povero ma genuino, arretrato ma affascinante, fermo a un Medioevo conveniente per chi arriva da fuori.
L’Italia, insomma, diventa uno sfondo su cui proiettare desideri, frustrazioni e snobismi, più che un luogo reale. Il bersaglio, quindi, non è tanto la cucina italiana in sé, quanto lo sguardo con cui viene consumata e raccontata. Il problema è che Coren, per colpire quel bersaglio, sceglie consapevolmente l’arma dell’insulto, sacrificando la lucidità sull’altare della provocazione.
Stando al critico classe 1969, «Jamie Oliver, Nigella Lawson, Antonio Carluccio e il River Café hanno perpetuato questa favola romantica. I supermercati si sono riempiti di pomodori secchi, pesto in barattolo, gnocchi sottovuoto, salami, biscotti, panettoni. Tutti hanno comprato una macchina per la pasta, usata una volta, mai lavata e poi abbandonata nell’armadio sotto le scale, dove giace tuttora».
In Italia Coren c’è stato. Così non perde occasione per documentare quanto ha vissuto. Il cibo? A sua detta «pessimo. I ristoranti cari, il personale scortese. Gli italiani odiano gli inglesi e l’unica scelta sicura è la pizza, come in America o a Wolverhampton».
L’articolo procede per strappi e digressioni continue, saltando qua e là senza una vera progressione argomentativa. Non costruisce un ragionamento: accumula invettive, gag e immagini volutamente eccessive, come in un monologo. Se la prende anche con Massimo Bottura, fiore all’occhiello della cucina italiana nel mondo. Lo cita: «La cucina italiana è unica». Salvo poi dire che ha dichiarato il falso. «Ha mentito lo chef Massimo Bottura, la cui “Osteria Francescana” di Modena è stata una volta (a torto) votata miglior ristorante del mondo».
Per dovere di cronaca, quella che un critico gastronomico dovrebbe maneggiare con una certa dimestichezza, l’Osteria Francescana è stata eletta miglior ristorante al mondo dalla World’s 50 Best Restaurants nel 2016 e nel 2018. Dal 2019 è entrata nella Hall of Fame, super lista dei migliori ristoranti al mondo. Dati noti, o quantomeno facilmente verificabili.
Eppure Coren tira dritto. E quando Massimo Bottura definisce la nostra cucina «non solo un insieme di piatti e ricette, ma un rito d’amore, un linguaggio fatto di gesti, profumi e sapori che tiene unito un intero Paese» –attingendo a un’intervista di Cook Corriere della Sera – la replica è velenosa, al limite dell’incidente diplomatico: «Un Paese così unito da aver collezionato 70 governi dal Dopoguerra, perlopiù guidati da squilibrati, e da aver eletto l’unico primo ministro nazionalista di estrema destra dell’Europa occidentale? Complimenti, mangiatori di pasta». Satira, certo. Ma con la precisione di un coltello usato a caso.
Nel finale, abbandonata ogni velleità polemica sull’Italia, Coren ribalta il discorso e passa all’autocelebrazione, trasformando l’invettiva in un elogio della cucina britannica, proposta come vera candidata al riconoscimento Unesco. Ed è qui che scrive: «Se c’è una cucina nazionale che l’Unesco dovrebbe riconoscere per il suo valore culturale eterno e la sua importanza politica unica, è quella inglese. Inclusi, ma non solo: il toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio; le colazioni degli hotel economici, prodotte in un unico oscuro centro da troll ciechi con materiali di fortuna; gli spaghetti col ketchup; la torta di Haribo sciolta in macchina ad agosto; i noodles cinesi croccanti incollati alla tovaglia; lo snakebite and black, il Barolo britannico; le salsicce Heinz con fagioli, che contengono tutti i gruppi alimentari conosciuti; i panini al ketchup; il porridge — isolante da sottotetto ammorbidito con acqua — e, naturalmente, la Terry’s Chocolate Orange. Questa sì che è cultura. Altro che pomodori!».
C’è qualcosa di tenero nel livore di Coren, figlio del più noto Alan, umorista: come se dietro la caricatura non ci fosse una stroncatura, ma una resa. Si può irridere l’estetica, perfino la retorica della cucina italiana. Più difficile è liquidare il fatto che qui il cibo resta un linguaggio condiviso, quotidiano, vivo. Il sarcasmo passa, la tavola rimane. L’Italia avrà pure i suoi miti e le sue retoriche, ma è un Paese in cui il cibo è cultura prima che battuta. Quando l’argomento diventa il ketchup sugli spaghetti come atto culturale fondativo, il confronto è perso. La cucina italiana sopravvivrà anche a questo attacco: è abituata da secoli a essere copiata, banalizzata e criticata. E, puntualmente, digerita meglio di chi la contesta.
La curiosità
*Giles Coren nel 2016 è finito al centro di una polemica molto dura per alcuni commenti pubblici fatti dopo la morte del critico gastronomico A. A. Gill, figura molto nota nel giornalismo britannico. Da anni Coren e Gill avevano un rapporto di rivalità personale. Alla notizia della morte di Gill (2016), Coren fece dichiarazioni, anche social, che furono lette come ciniche e sprezzanti, lasciando intendere sollievo più che cordoglio. Le reazioni furono immediate: colleghi, lettori e testate lo accusarono di mancanza di umanità e di aver superato il limite della provocazione. L’episodio è spesso citato perché chiarisce il punto: nel caso di Coren, la provocazione non sarebbe solo uno stile di scrittura, ma un atteggiamento personale.
13 dicembre 2025 ( modifica il 13 dicembre 2025 | 20:43)
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