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Ancora una volta lo sport è una metafora della vita, della parte migliore della vita. Ne avevamo avuto conferma nel settembre del 2022, quando Rafael Nadal e Roger Federer vennero sorpresi a piangere come bambini in un’occasione speciale e irripetibile: l’addio al tennis del campione svizzero. Dopo essersi presi a pallate per un decennio, inseguiti, superati, sconfitti l’uno per mano dell’altro e rialzati l’uno nella mano dell’altro, se ne stavano a stillare lacrime davanti alle telecamere, impietriti in una consapevolezza implacabile come uno smash: gli anni migliori se ne stavano andando, perché c’era stato un solo modo per viverli. L’uno contro l’altro. Pochi giorni dopo, in un’intervista al New York Times, Federer espresse mirabilmente quel momento: «Immagino che a un certo punto…immagino di averlo appena toccato, e che forse sia stato un grazie segreto».
APPROFONDIMENTI
La sfida
Tre anni dopo, al culmine delle ATP Finals di Torino, Jannik Sinner quel grazie lo ha reso pubblicamente a Carlos Alcaraz: «Grazie Carlos, perché mi servi, mi dai motivazione a migliorare».
Lo aveva appena battuto in una finale meno tirata di tante, al termine di una stagione in cui i due enfant prodige si sono spartiti tutto: gli Slam e le briciole. Sinner si è preso Australia e Wimbledon, lo spagnolo Parigi e Us Open. L’italiano era partito numero uno al mondo, Alcaraz ha finito numero uno al mondo. Nessun altro sport, come il tennis, si alimenta di sfide omeriche, di rivalità costruite sul campo per anni, match dopo match, parole sussurrate all’orecchio al termine di maratone sfiancanti, sguardi che condividono stanchezza, esaltazione, delusione, grandezza. Solo per restare ai tempi moderni, Borg contro McEnroe, Sampras contro Agassi, Navratilova contro Evert, appunto Nadal contro Federer. Ci sono delle eccezioni, i famosi terzi incomodi, ad esempio Novak Djokovic, che si è insinuato come un amante nello straordinario ménage tra Nadal e Federer, prendendosi un po’ di entrambi. Ma è il destino malinconico del Joker, quello di passare alla storia come un campione scompagnato, la carta che spariglia.Destini uniti
Non si vede al momento, e nemmeno all’orizzonte, chi possa infilarsi tra Sinner e Alcaraz, il cui destino è quella di camminare a braccetto sul lungo e faticoso viale della gloria sportiva, fatto di allenamenti estenuanti e cura maniacale dei dettagli, non solo di salatiere levate al cielo tra i flash dei fotografi o modelle in attesa sulle tribune. L’italiano anomalo e lo spagnolo ortodosso sono l’ossessione l’uno dell’altro, uniti da una fratellanza che un talento esclusivo rende indissolubile. Non ci si sceglie la famiglia e nemmeno i rivali. Loro si sono trovati perché così probabilmente era scritto, perché lo sport è il prolungamento dell’epica. Quello che rende speciale il loro rapporto è il fatto che non possono sottrarsi, come una condanna: è il carburante delle rispettive carriere, lo stimolo a crescere, a sopportare la pressione e le cadute, a specchiarsi nell’altro e trovare se stessi, a plasmare una lealtà e una riconoscenza che alla fine di tutto, quando una partita di addio li farà esplodere in un pianto, sopravviverà al tempo e ai palmares. In un’epoca conflittuale, in una politica che non ammette altro schema che la palla al corpo, l’insulto, la delegittimazione dell’avversario, nella società digitale in cui proliferano gli hater e le frustrazioni, questi due ragazzi belli, ricchi e famosi – ma, va sottolineato, non figli del privilegio – ci insegnano l’arte del rispetto dentro una rivalità senza soluzione. Il fatto che nessun passante, nessuna volée del destino ci autorizza a odiare, semmai dovrebbe spingerci a fare sempre meglio. O del nostro meglio.
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