di
Sara D’Ascenzo
Nel film dell’esordiente Margherita Spampinato, il rapporto tra una zia (quasi nonna) e un nipote che devono imparare a dimostrare l’amore
«Gioia mia» di Margherita Spampinato
Almeno una volta nella vita sarete stati chiamati, da piccoli, «gioia mia». O l’equivalente nordica di un’espressione idiomatica del sud con cui le persone più grandi chiamano i bambini ai quali tengono. E non c’è titolo più adatto a questo per un film che racconta con poche pennellate un mondo che trascolora e scompare, ambientato nell’oggi ma che sembra provenire da un passato in cui le estati erano lunghissime ed eternamente uguali salvo venire colpite da scosse piccole o grandi che cambiavano tutto. Nico viene dal nord e la famiglia, impegnata col lavoro durante l’estate, lo spedisce al sud dalla zia Gela (la grandissima Aurora Quattrocchi), che da giovane ha fatto da madre al padre di questo ragazzino un po’ chiuso che sembra interessato solo alla bellissima babysitter che sta per sposarsi (Camille Dugay, figlia di Cristina Comencini) e al suo cellulare. In Sicilia dove arriva, in un vecchio appartamento di una città onusta di storia, dove i soffitti sono alti e si preparano piatti «difficili» per lui come le sarde a beccafico, lo attende un mondo di regole e accudimento, di cuscini che vanno sprimacciati ogni mattina e lenzuola che devono profumare di fresco, di misteriose presenza e di passati che chiedono di essere rivelati. Sarà per entrambi – zia e nipote – una vacanza di crescita per imparare a dimostrare quell’amore che Gela nasconde dentro di sé come in un forziere e Nico non pensa di saper provare. Spampinato, al suo esordio alla regia, si avvicina al cuore della storia per piccoli passi, per inquadrature che fotografano le persone lentamente, senza nessuna delle frenesie vuote del cinema contemporaneo, ma con affetto, comprensione. E una «visione» che parla di cinema parlando di sentimenti. «Gioia mia» è un incanto tutto da scoprire, dal quale lasciarsi commuovere ricordando o semplicemente desiderando.
Voto: 7,5. Esordio felice, nostalgico senza essere melenso. Con un gruppo d’attori – tra le anziane e i bambini – accudito dalla regista e messo nelle condizioni di dare il meglio. Da non perdere.
«Un inverno in Corea» di Koya Kamura
Come nelle migliori tradizioni, quando lo «straniero» arriva squaderna tutti i piani. Accade così anche per la giovane Soo-Ha, studentessa di letteratura e cuoca alla pensione Blue House, che si trascina un po’ stancamente verso un ipotetico matrimonio – voluto più dalla madre che da lei, in realtà – con un coetaneo. Ma nella pensione arriva il misterioso francese Yan Kerrand, illustratore famoso in cerca di un alloggio e di ispirazione per il nuovo libro. Per Soo-Ha (Bella Kim), cresciuta con lo spettro di un padre francese che non ha mai conosciuto, Yan (il torbido Roschdy Zem) rappresenta l’ignoto che appare, qualcosa che la nostra vita non contiene al momento, ma è come se sapessimo che c’è, è lì da qualche parte. La giovane comincia così a portare Yan in giro per la grigia Sokcho, cittadina del Nord nella Corea del Sud, alla stessa latitudine di Seoul, ma anni luce dalla frenesia della capitale coreana. Anche qui i movimenti di macchina di questa regista esordiente sono tutti tesi a non scoprirsi troppo, a preservare il lento tentativo d’avvicinamento della ragazza verso l’uomo. Potrebbe nascere un amore? Potrebbe proiettare sull’uomo l’ombra del padre? Intorno a loro, la città mostra un carattere interessante: il profilo delle montagne, il mare, la spiritualità che promana da ogni inquadratura, un cibo non convenzionale, preparato come cura da Soo-Ha per Yan ma spesso rifiutato da questi, senza apparente motivo. Nel giro di un inverno l’ispirazione arriva. E anche per Soo-Ha è tempo di cambiare e, forse, concedersi di essere felice.
Voto: 7. Soffuso, malinconico, ma con carattere. È un ritratto della Corea di oggi, tormentata dallo spettro della perfezione – le scene con la donna perennemente fasciata dopo l’intervento estetico, i continui rimbrotti alla ragazza per migliorare il suo aspetto – ma consapevole del proprio fascino.
«Nguyen Kitchen» di Stéphane Ly-Cuong
La vita di Yvonne Nguyen, giovane donna franco-vietnamita, è tutt’altro che il grande musical in stile Broadway che lei sogna per sé e per la sua carriera fin da bambina. A Parigi dove si arrabatta con piccoli spettacolini di cuore e performance in costumi orientali nel reparto surgelati dei supermercati, la sua vita è a un punto morto: alle audizioni il suo aspetto le pregiudica le parti da protagonista, la rottura con il fidanzato la costringe a tornare a vivere con l’anziana madre titolare di un piccolo ristorante vietnamita che da sempre la tormenta perché si sposi e impari a cucinare. Ritratto di un’artista in crisi con molto cuore e decisamente cocciuta, «Nguyen Kitchen» sfrutta diversi filoni che hanno qualche successo in sala: i pregiudizi interrazziali e antifemministi (le critiche della mamma sono forse la cosa più gustosa del film), il cibo al cinema (un genere a sé ormai, con le donne che arrotolano gli involtini e Nguyen che ovviamente è una frana) e naturalmente il fascino del musical, qui strumento per raccontare il coming of age di una giovane donna che non risponde a nessun canone. Nulla di nuovo e qualche banalità di troppo, ma sotto le feste e con una tale tristezza in giro, contro la quale il film può forse costituire un buon antidoto.
Voto: 6. Allegro ma non troppo, perfetto per chi ama il musical.
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12 dicembre 2025
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