Dopo che l’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana come patrimonio culturale immateriale dell’umanità, era solo questione di tempo prima che qualcuno reagisse. I primi sono i sudditi di Re Carlo. Non con risentimento, ma con ironia. Il Telegraph lo ha fatto nel modo più britannico possibile: prendendo sul serio solo ciò che di solito non lo è affatto.
Il riconoscimento
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10 Dicembre 2025

Il risultato è un articolo che non difende la “grande cucina” inglese, ma ribalta il cliché del British food come sinonimo di tristezza e assenza di gusto o fantasia. Lo fa elencando piatti certo non famosi per il fascino, “comfort-food” senza alcuna ambizione estetica, ricette nate tra pub, chips shop e stadi di provincia. L’obiettivo non è tanto sostenere che siano migliori della parmigiana o del risotto alla milanese (primo perché sarebbe assurdo, secondo perché non è sui piatti e le ricette che si fonda il riconoscimento ottenuto dall’Italia), ma suggerire che alla base di questo inserimento nel patrimonio Unesco c’è una pratica vissuta.
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Ecco allora le 7 ragioni per cui anche il Tegno Unito dovrebbe poter entrare nel novero: c’è il deep-fried jam sandwich di Delia Smith, una specie di ciambella ripiena travestita da panino, fritta nell’olio bollente e servita allo stadio di Norwich. Un’idea che sembra uno scherzo, e invece racconta un’intera grammatica del mangiare britannico: il culto della frittura, la sacralità del giorno della partita, la fiducia assoluta che tutto possa migliorare passando dalla friggitrice, che si tratti di immergerci la barretta di Mars o l’haggis croccante — (l’insaccato a base di frattaglie, cereali e spezie).
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Poi c’è il Minger, formaggio dal nome che in slang scozzese significa più o meno “puzzolente”, e che infatti non fa nulla per nasconderlo: una pasta a crosta lavata, intensa e aromatica, figlia della nuova stagione dei formaggi artigianali britannici. Un prodotto che, come spesso accade, gioca sull’autoironia per affermare una cosa seria: oggi il Regno Unito è tra i Paesi più interessanti al mondo sul fronte caseario.
Il kebab pie, incoronato a Melton Mowbray come miglior torta salata dell’anno, è forse il manifesto più chiaro di questa cucina senza complessi: la forma più britannica che esista, riempita con carne marinata e profumata di spezie orientali. È la dimostrazione che la tradizione, anche qui, si è sempre felicemente contaminata. Una cucina “gazza”, come la definisce l’autore: prende, adatta, trasforma.
Gli chef
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Ci sono poi le strawberries and cream sandwich, versione M&S di un dessert che diventa panino, con fragole e panna tra due fette di pane morbido, omaggio dichiarato al sando giapponese ma ostinatamente britannico nella sua sobrietà.
E i pickled eggs, le uova sode conservate nell’aceto che galleggiano nei barattoli dietro il bancone dei pub: divisive quanto basta per essere amate davvero, simbolo di un mangiare che è gesto, rituale, abitudine condivisa più che ricetta.

Arbroath Smokies
A chiudere, il grande capitolo dei dessert con il frugale bread and butter pudding fatto con pane raffermo, latte e spezie. E poi spazio alla gastronomia scozzese. Qui entrano in scena gli Arbroath smokies, eglefini affumicati secondo una tecnica tradizionale, il Cullen skink, zuppa cremosa di pesce affumicato, patate e latte, che è puro conforto nordico; il black pudding, insaccato di sangue e cereali che a colazione prende il posto che da noi avrebbe una fetta di pane e salame. Piatti che, suggerisce l’articolo, sarebbero celebrati ovunque se non fossero nati in un Paese che ha fatto “dell’autosabotaggio culinario una forma d’arte”.
Il punto, però, non è stabilire se la cucina britannica meriti davvero l’Unesco. Il punto è un altro, ed è interessante anche per noi italiani: che cosa intendiamo, oggi, per patrimonio gastronomico? Un elenco di eccellenze o un insieme di pratiche quotidiane? L’alta cucina o il mangiare reale?
L’intervista
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Il pezzo del Telegraph suggerisce, appunto, che il patrimonio non vive solo nei piatti impeccabili, ma nei luoghi dove si mangia senza pensarci troppo: il pub, il chippy, lo stadio, il banco frigo di un supermercato. Nei cibi che consolano, che fanno sorridere, che raccontano un Paese anche quando non cercano di rappresentarlo.
Magari è solo una provocazione. O forse è un promemoria utile anche per noi, ora che la cucina italiana è entrata ufficialmente nella storia: ricordarci che il patrimonio, se non resta vivo, condiviso e perfino un po’ disordinato, rischia di diventare solo una bella teca.