di
Alessandra Puato

Mentre in Germania MediaWorld passa a JDCom, in Italia le acquisizioni di Pechino crollano. Valevano 9 miliardi nel 2015, ora 101 milioni. Effetto anche del golden power: notifiche decuplicate in 5 anni

Mettiamola così: oggi, probabilmente, i cinesi non passerebbero il casello. Quel 5% di Autostrade per l’Italia che Silk Road Fund, fondo di Pechino, acquisì nel 2017 da Atlantia è una mosca bianca, visto con gli occhiali del 2025. Gli investimenti per fusioni e acquisizioni della Cina in Italia sono ai minimi termini e dietro c’è più che in passato, oltre alle variabili geopolitiche, l’effetto golden power: il potere di veto che il governo sta valutando di applicare sempre più spesso per frenare gli investitori esteri sugli asset ritenuti strategici. Mentre pure Bruxelles, notizia dei giorni scorsi, sta studiando di rafforzare i controlli sulle acquisizioni straniere.
È uno scenario a due facce. Da un lato le acquisizioni cinesi in Italia sono crollate, anche per via delle barriere d’ingresso. Dall’altro aumentano le merci in entrata dalla Cina, in genere a basso prezzo. Lo sottolinea la ricerca di Kpmg Italia del 2 dicembre scorso, condotta per L’Economia del Corriere della Sera.

Cina Kpmg Settori

L’impennata delle importazioni

Nei primi nove mesi del 2025 le importazioni dalla Cina in Italia si sono impennate del 20% a 46,8 miliardi di euro, rispetto al gennaio-settembre 2024. Per capirsi: erano a 32,2 miliardi nell’intero 2020. Nei nove mesi di quest’anno, l’export dall’Italia alla Cina è invece calato del 9,5% a 10,3 miliardi, dopo una crescita costante dal 2020 al 2023.
Quanto alle acquisizioni, alla fine di ottobre erano soltanto quattro i deal (anzi, tre, contando le due operazioni su Bialetti, l’Opa e il delisting) conclusi dalla Cina in Italia per appena 101 milioni di euro. Nel 2024 erano stati otto per 2,88 miliardi (soprattutto per due cessioni di Enel in Perù a China Southern Power Grid). Ma il confronto significativo è con il 2017 quando ci fu il picco a volume: 22 operazioni. E naturalmente con il 2015 quando passò di mano Pirelli, la maxi Opa, e si toccò il massimo a valore con 9,138 miliardi investiti.



















































Cali e nuovi picchi

Negli ultimi 15 anni in Italia ci sono state 160 fusioni o acquisizioni da parte dei cinesi per almeno 27,8 miliardi. Quasi una trentina di miliardi, insomma, sono stati investiti in M&A dalla Cina in Italia dal 2011 a oggi. Dal 2015-2017, però, c’è stato un crollo.
Mentre allo stesso tempo si sono impennate le operazioni notificate per il golden power, strumento rafforzato nel 2022. Nel 2024, nota Kpmg, sono state oggetto di analisi ai fini del golden power 835 operazioni contro le 83 del 2019. Decuplicate in cinque anni. «È cambiato il mondo rispetto all’accordo sulla Via della Seta — dice Max Fiani, partner di Kpmg Italia che ha coordinato la ricerca —. Era il 2019 quando ci fu la Belt & Road Initiative, l’intesa del governo italiano con la Cina sugli investimenti. Dopo il conflitto Russia-Ucraina è poi cambiato l’atteggiamento dell’Europa verso la Cina: si cercavano nuovi mercati di sbocco e la tendenza è aumentata ora con l’amministrazione Trump, ma c’è un approccio più prudente. È anche cambiato l’atteggiamento della Cina sugli investimenti all’estero: prima erano aperti a tutto, dal calcio in giù (il Milan, ndr.) , poi si sono limitati ad alcuni settori. Adesso le operazioni si sono ridotte al lumicino».

M&A Cina Italia 15 anni

Mediaworld e le altre

Così, è vero che il 3 dicembre scorso la cinese JD.com ha annunciato di avere rilevato la maggioranza della tedesca Ceconomy, che ha in portafoglio di MediaWorld. Ed è vero che la veneziana Golden Goose è corteggiata, con le sue sneakers, dal fondo di private equity Hongshan, così come pare interessi ai cinesi Riello. Ma è anche vero che quest’anno le operazioni cinesi rilevanti si sono fermate a Bialetti, con il fondo Nuo Capital (Octagon BidCo) che ne ha acquisito il controllo il 5 giugno, per poi toglierla dal listino di Borsa. Altri deal sono poco significativi. Uno è la cessione da parte di El .En. del 59,18% della controllata cinese Penta Laser Zhejiang, taglio laser, alla Yangtze Optical Fibre and Cable Joint, fibra ottica. Un altro è il passaggio del 28,6% delle Officine Mtm, attrezzature per impianti industriali, al gruppo Dawang Metals, microfusione.

Le partecipazioni significative

La mappa delle partecipazioni significative cinesi in Italia, che in passato comprendeva piccole quote della People’s Bank of China anche nelle grandi banche italiane, si è ristretta. La rete si è smagliata. C’è ancora Sinochem in Pirelli con il 37% (aveva il 65% l’allora ChemChina nel 2015), potere in sostanza congelato dal golden power. C’è ancora la State Grid in Cdp Reti, che partecipa Snam, Terna e Italgas. Qui il patto di sindacato ha retto, State Grid è ritenuto un socio finanziario di lungo periodo, finora silente, con due consiglieri su cinque nel board della holding e uno in ogni cda delle tre società (sempre lo stesso uomo, Qinjing Shen).
C’è poi il 19% di Prada quotato a Hong Kong. C’è il Silk Road Fund con il 5% in Autostrade. C’è Haier al 100% in Candy. E Kpmg segnala le cessioni di quote di partecipate estere di Eni (East Africa, 28,6% a Cncp) ed Enel (Enel distribution Perù 83,15%, Enel X Perù 100%).

Le aspettative

Sono i settori dell’energia, dell’industria, dei beni di consumo. Ciò che, dell’Italia, ha più interessato finora gli investitori cinesi. In 15 anni, infatti, il 73% dei deal è dato dai comparti Energia e utility (11,7 miliardi) e Industria (8,5). Seguono i Beni di consumo (3,9) e i servizi finanziari (2,3).
«Ora l’aspettativa degli operatori è che difficilmente possa passare un deal cinese, si rivolgono altrove — dice Fiani—. Ma non c’è da esserne soddisfatti. È un tema di competenze, oltre che di capitali: la Cina ormai è all’avanguardia non solo nelle tecnologie ma anche nella manifattura, è la seconda economia mondiale. Bisogna trovare un equilibrio tra le esigenze dell’interesse nazionale e quelle del mercato».
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14 dicembre 2025