di
Alessandro Trocino
Ci troviamo nella fase ciclica in cui Milano viene sbeffeggiata dai romani, proprio mentre il sindaco Gualtieri incassa i dividendi in consenso di mesi di sopralluoghi con il casco anti infortunismo
L’orientale rilassatezza di Roma (Libero Bigiaretti) e l’alacrità da cumenda di Milano, la monumentale e godereccia pigrizia di Roma e la magrezza giansenista, nutrita di opulenza capitalistica, di Milano. Ci si chiede oggi, se di fronte alla stagione di rinnovato vigore (ma effimero?) di Roma e alla nuova verticalità in Scia (ma cool) di Milano, si debbano riscrivere e aggiornare decenni anzi secoli di luoghi comuni e di rivalità tra la Capitale vera e quella morale, tra la città che, scriveva Joyce, «è come un uomo che si mantiene mostrando ai viaggiatori il cadavere di sua nonna» e l’altra, nella quale gli imprenditori giaguari di sinistra giravano con cappotti di cammello milionari, per poi lasciare il posto ad architetti e funzionari secchi come le segretariette di Bianciardi, che mandano warning e accumulano grattacieli e miliardi.
Nell’eterno dualismo tra Roma e Milano c’è qualcosa di stantio e di vitale, che conferma cliché antichi, vanti e rancori, risentimenti e vanaglorie, ma che sembra ribaltare periodicamente la percezione collettiva delle due città, metafore di un modo di essere e di vivere, tra degrado e splendore, modernità e paralisi. Ora siamo nella fase ciclica in cui Milano viene sbeffeggiata e sbertucciata dai romani, sempre pronti a vendicarsi per la presunta superiorità morale ed economica da ganassa dei lombardi, proprio mentre il sindaco Roberto Gualtieri incassa i dividendi in consenso di mesi di sopralluoghi con il casco anti infortuni, il gilet arancione e il sorriso catarifrangente, spesi a mostrare con fierezza qualche cestino in polietilene ad alta densità o un nuovo strato di bitume appena steso, dove prima svettavano crateri lunari.
Per di più, ora, incredibilmente, il governo ha deciso di assegnare a Roma quei superpoteri che implorava da decenni, con una mossa che ha reso Gualtieri felice come un bambino e che finirà per dare una spinta in più a una Capitale decrepita, finora soltanto imbellettata dal sindaco capo cantiere. Ci si chiede se si debba lodare il governo di destra per tanta onestà intellettuale e per tanta benevolenza nei confronti di un sindaco democratico o se, piuttosto, questo non sia il segnale che la premier underdog della Garbatella percepisca la romanità come strumento andreottiano di potere, in quel movimento centripeto da circolino che consolida l’establishment eterno. E se non sia, dunque, questo il segnale di un ripiegamento centralista del governo, che scolpisce Roma come Capitale d’Italia e del Mediterraneo, se non proprio come «caput mundi».
E dunque, eccoci qui, con i milanesi abbacchiati che provano a difendersi dalla nuova ondata di indignazione, perché – come scrive Michele Masneri – «Milano è la città che tutti amiamo odiare». Dalle prime ricostruzioni, però, l’inchiesta milanese non sembra disegnare quel vastissimo disegno criminale improntato a un sacco vandalico della città, ma più un andazzo decisamente deprecabile, un malcostume consolidato, tra consumo eccessivo del suolo e favoritismi ai costruttori, condito con qualche esempio di malaffare che non vede più i Mario Chiesa gettare le mazzette nel wc, ma i nuovi funzionari cancellare freneticamente chat compromettenti.
Oggi ci si scaglia – più nella Milano alternativa che a Roma -, contro quella verticalità così odiata dalla sinistra radicale, che vede nei grattacieli i nuovi totem del malaffare e della dismisura, la versione aggiornata e stilizzata di quel torracchione della Montecatini che l’anarco-rivoluzionario venuto dalla Maremma considerava il simbolo del potere, da far esplodere con la giusta combinazione di aria e metano. Ma poi, a ben vedere, i milanesi un po’ offesi dai capitolini maramaldeggianti, ribattono che Milano è sempre più bella, altro che scempi edilizi, e certo, c’è poco verde pubblico, ma rispetto a 30 anni fa è una città splendida, che non può essere dileggiata per quattro grattacieli costruiti in fretta che oscurano lo spicchio di luna nebulosa a qualche residente sfortunato. Semmai, quello che fa rabbia ai milanesi fieri di antiche amministrazioni socialiste e socialdemocratiche (più Greppi, Ferrari e Cassinis che Tognoli e Pillitteri) è il tradimento dei valori di solidarismo, l’espulsione delle fasce meno abbienti a causa di un modello di città che è esclusivo perché escludente.
Però che Milano sia brutta è un luogo comune che deriva dal raffronto impietoso con le bellezze monumentali di città come Venezia, Roma e Firenze, e da un’architettura severa ma giusta. Nel 1922 l’architetto Giovanni Muzio tirò su un palazzo bellissimo che i milanesi, abituati a linee più morbide, subito ribattezzarono «Ca brütta». E la nomea è antica, come dimostra quel gran lombardo di Carlo Emilio Gadda, che la definiva una «brutta e mal combinata città». Il fascismo che seppellì i Navigli sotto tonnellate di cemento contribuì a inaridirla e a incupirla, ma poi il nuovo secolo si è incaricato di sposare le linee classiche di palazzi borghesi che somigliano a «impeccabili morgue» (come scrive Alberto Saibene nel suo «Milano fine Novecento») alle nuove costruzioni avveniristiche, skyline di vetrocemento moderno e per niente brutto (e pazienza se è tutta o quasi proprietà del Qatar).
La densificazione di Milano è il segreto anche del collante sociale, con spazi ristretti e periferie che sono meno isolate e abbrutite di quelle di Roma, immerse negli spazi di una metropoli gigantesca (poi però ci sono il Corvetto e San Siro, molto abbrutiti). La Capitale è più grande di sei o sette volte, ma Milano ha un continuum nell’area metropolitana che la rende una delle aree urbane più estese del mondo. È vero che, come scriveva Eugenio Montale nel mitico «Contro Roma» (Bompiani, 1975), «a Milano non si può passeggiare», è anche vero che a Roma le distanze rendono difficile portare servizi sociali, supermercati e mezzi pubblici nelle aree più periferiche.
Se il «modello Milano» ormai è un marchio di infamia che inchioda alle loro responsabilità amministratori, architetti e developer troppo sbrigativi e insofferenti alle regole, è anche vero che i giudizi sulla città sono sempre stati apodittici e apocalittici. Chi l’ha esaltata, come la città più moderna, dinamica, brillante e culturalmente viva d’Italia e chi l’ha crocefissa. Nel 2009 Marco Alfieri parla della «Peste a Milano», non quella seicentesca, ma quella più recente.
Ma sono i giudizi storici su Roma che segnalano una sorta di incomprensione antropologica, condita da un po’ di disprezzo. Il milanese Pietro Verri parlava al fratello Alessandro di una città «grande e magnifica ne’ sassi e piccolissima nelle teste umane che vi abitano». E non nascondeva la sua insofferenza quasi razzista: «Quando ascolto parlar romano, sento il sapore delle fave verdi». Il fiorentino e futurista Giovanni Papini si scagliò contro la città dei «mantenuti»: «Questa città brigantesca e saccheggiatrice che attira come una puttana e attacca ai suoi amanti la sifilide dell’archeologismo cronico, è il simbolo sfacciato e pericoloso di tutto quello che ostacola in Italia il sorgere di una mentalità nuova». Persino Benito Mussolini scrisse che Roma è «la città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati. Roma è il focolare d’infezione della vita politica nazionale, è un’enorme città vampiro che succhia il miglior sangue della nazione».
Le invettive romane contro Milano sono invece più recenti ed affidate più all’umore popolare, al famoso «treno per Roma» (la cosa migliore di Milano), al disprezzo per la Milano da bere, per i bauscia, i designer, l’inquinamento («smog, avete solo lo smog», cantano i tifosi), la vita frenetica persino sulle scale mobili, lo stress, la hybris, i maranza, i pickpocket, i ferragnez, gli sciabolatori alla Lacerenza, la bamba, la cementificazione, gli apericena. Paccottiglia con qualche fondo di verità, che intercetta più due modi di vivere diversi che una rappresentazione veritiera della città.
Noi siamo di parte, pur avendo vissuto 15 anni a Roma, o forse proprio per quello, ma ci si ritrova nell’ironia di Masneri: «Il retequattrismo negli anni ha dipinto Milano come una specie di Caracas dove sai quando esci di casa ma non sai se tornerai vivo, tra scippi sulla metro, assalti di baby gang, stupri a base di droga nel bicchiere nei locali della mala movida. Arhg!». Di fronte a questo «antico sentimento di fastidio» nei confronti di Milano, a questo accerchiamento rancoroso, viene da difenderla, anche quando è indifendibile.
Ma poi si ripensa alle parole di Stefano Ciavatta, giornalista e romano vero, e Roma torna a splendere, misteriosa e profonda e a darti quel senso di libertà e di perdizione che Milano non avrà mai: «Il ventre romano arriva in territori ancestrali, puoi infrattarti sull’Appia antica, fare l’amore in macchina con i finestrini abbassati e a un certo punto avvertire un senso di panico che viene da fuori. Puoi scendere le scale di san Clemente al Celio per fuggire il sole d’agosto e ritrovarti davanti al corridoio buio del culto di Mitra. Là dentro c’è il tempo che non tornerà mai più, però fa parte di Roma e vedrai che diventeremo tempo perso anche noi. Per questo nessuno qui ha la ricetta granitica che resiste al tempo. A volte fai il rabdomante, a volte peschi a strascico, a volte sei Flaiano, a volte sei un cojone».
3 agosto 2025
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