Ci sono parole che contengono più spazio di quanto sembri. “Confine” è una di queste: non indica una fine, ma un movimento. È la linea che separa e nello stesso tempo unisce, l’intervallo fra ciò che è visibile e ciò che si intuisce, fra la misura del mondo e il suo mistero. La mostra “Confini da Gauguin a Hopper. Canto con variazioni”, curata da Marco Goldin nell’Esedra di Villa Manin di Passariano fino al 12 aprile, nasce da quel pensiero dilatato.
Nel Friuli Venezia Giulia che ha sempre convissuto con l’idea di frontiera, il tema si fa racconto: non un limite, ma un respiro che attraversa due secoli di pittura, dall’Ottocento al Novecento, dall’Europa all’America, in 137 opere provenienti da quarantuno musei e collezioni internazionali.

Visitatori durante una visita guidata alla mostra allestita nell’Esedra di Villa Manin
Il racconto comincia in un corridoio di luce, una galleria con una trentina di opere italiane del secondo Novecento che accompagnano i primi passi dopo l’ingresso: un preludio silenzioso che prepara lo sguardo. Ma dopo aver attraversato la mostra, quelle tele si guarderanno con occhi diversi: nelle loro superfici, nei tagli di luce e nei colori, diventeranno lampanti le matrici dei maestri appena incontrati.
Si scendono poi le scale, e il viaggio inizia con un colpo d’occhio denso e silenzioso: “Märkische Heide” di Anselm Kiefer incombe con il suo paesaggio di cenere e metallo, confine cosmico fra terra e cielo; un Mark Rothko vibra in un rosso che non illumina ma respira, soglia dell’interiorità, mentre Gustave Courbet, Claude Monet ed Emil Nolde raccontano i margini della natura, dove la luce tocca la materia e la trasforma, restituendo la tensione fra il visibile e ciò che lo oltrepassa.
Poco oltre, il confine diventa interiore, con ritratti e autoritratti riuniti in uno spazio in cui la luce è calibrata con tale precisione da diventare emozione. Edgar Degas, Pierre-Auguste Renoir, Edvard Munch, Paul Gauguin, Vincent van Gogh, Ferdinand Hodler, Arnold Böcklin, Amedeo Modigliani, Alberto Giacometti e Francis Bacon rivolgono allo spettatore il proprio sguardo e la propria misura: nei volti si sente il peso dell’identità, la lotta con il limite, avvolta nella penombra e interrogata dalla luce.

La pittura si apre poi al paesaggio, ai confini naturali. L’Ottocento diventa il secolo della natura, e ogni quadro una soglia mobile. Caspar David Friedrich costruisce orizzonti che si allontanano come pensieri, Joseph Mallord William Turner racconta la storia nella supremazia della luce, John Constable e Albert Bierstadt rivelano un cielo smisurato, mentre Paul Cézanne nega la profondità e lascia respirare le forme.
Courbet trattiene l’eternità nella spuma di un’onda, e Monet dissolve il confine fra cielo e mare: il visibile diventa esperienza interiore. Un dialogo inatteso si apre con il Giappone: le xilografie di Katsushika Hokusai e Utagawa Hiroshige insegnano che il confine non è una linea, ma un ritmo che vibra. È la stessa cadenza che ritorna nei cieli di Hodler, nelle superfici di Cézanne, nelle dissolvenze di Monet: un non-confine da cui nasce la modernità. Il cielo diventa allora il confine per eccellenza.
Dalle altezze di Friedrich alle trasparenze di Turner, dalla verticalità di Nicolas de Staël alle visioni di Piet Mondrian, fino al colore meditativo di Rothko: il cielo è spazio spirituale, limite tra umano e divino. E i papaveri di Nolde del 1943 diventano tre fiori accesi durante la notte più buia della Germania, come un confine morale: la pittura come gesto di vita contro la distruzione.
Il viaggio tocca i confini più o meno lontani, le terre che attraggono e sfuggono. Gauguin cerca la luce altrove, dalla Bretagna alla Martinica e a Tahiti; Van Gogh la trova nella campagna di Arles e poi ad Auvers-sur-Oise, nel giallo che vibra come un confine fra realtà e visione; Monet, Cézanne e Pierre Bonnard reinventano il Sud della Francia come luogo di metamorfosi. E poi l’America, dove l’orizzonte è il confine.

La Hudson River School di Thomas Cole, Asher B. Durand, John Frederick Kensett, Bierstadt, Sanford Gifford e Frederic Edwin Church racconta la natura come epopea, con figure minuscole protese verso la vastità del mondo, o che fissano un orizzonte palpabile e incorporeo, come l’uomo seduto sul tronco bruciato nel “Vento d’aprile” di Andrew Wyeth, mentre tre grandi tele di Edward Hopper restituiscono momenti in cui niente accade, ma tutto si muove dentro quell’attesa.
Per questo la mostra è il “canto con variazioni” annunciato dal titolo: una sequenza vertiginosa di opere che, con tempi e respiri diversi, raccontano lo stesso momento. Quello in cui il confine non è più limite né luogo, ma l’istante in cui la pittura incontra la vita.
La scheda
Orario mostra: Fino al 12 aprile da martedì a domenica 9.30- 18, chiuso il lunedì e il 24 dicembre. Vendita dei biglietti sospesa 75 minuti prima della chiusura della mostra. Aperture straordinarie (9.30-18): lunedì 22 dicembre, giovedì 25 (14.30-19), lunedì 29, giovedì 1 gennaio, lunedì 5 gennaio, più i giorni di Pasqua e Pasquetta.
Biglietti:Sono acquistabili solo in mostra. Intero € 15, ridotto € 11 (oltre i 65 anni, titolari di Disability Card, FVG Card, Touring Club, FAI). Ridotto € 8 (minorenni dagli 11 ai 17 anni, studenti maggiorenni e universitari fino a 26 anni con tessera di riconoscimento). Gratuito bambini fino a 10 anni.
