Ma quanto sono belli i gialli? Se lo chiedete a un sinofobico (pausa drammatica per darvi il tempo di googlare cosa significa nel remoto caso in cui non lo sapeste o ricordaste), probabilmente vi dirà «Molto poco», ma per il resto possiamo probabilmente essere tutti d’accordo sul fatto che non c’è niente di meglio di un cervellotico mistero che ti tiene incollato per un paio d’ore prima di buttarti lì una soluzione che nooo va beh, pazzesco proprio. Uno di quelli con il morto ben piazzato, la platea di sospettati che sembra uscita da un catalogo di nevrosi contemporanee, e un investigatore che entra in scena con la serenità di chi sa già che qualcuno mentirà malissimo. È un piacere antico, quello di vedere il mondo ridursi a un problema da risolvere. In fondo, per quanto ne sappiamo, anche i pittogrammi coi mammut potrebbero benissimo essere il primo esempio di locked-room mystery: è stato l’uomo di Cro-Magnon, nella caverna, con la clava. Salto in avanti fino a superare Agatha Christie, gli anni d’oro dei cozy mystery televisivi e arriviamo fino ad oggi, con il ritorno di Benoit Blanc nel terzo capitolo di una saga che per certi versi è già un mistero di per sé: Knives Out. SIGLA!
Dopo l’exploit clamoroso del primo film, l’acquisto del franchise da parte di Netflix e un secondo capitolo che definire deludente è riduttivo, con Wake Up Dead Man: A Knives Out Mystery Rian Johnson porta Benoit Blanc in un posto dove, teoricamente, le bugie dovrebbero avere vita breve: una chiesa di provincia nell’upstate di New York; comunità piccola, facce note, peccati sempre gli stessi. Muore il Monsignor Jefferson Wicks Waporub (Josh Brolin, ma provate a immaginarvi Jeff Bridges nella parte e improvvisamente il film guadagna due tacche), predicatore carismatico e tossico, che tira le cuoia in modo “impossibile”, con i contorni del delitto che sembrano progettati per umiliare la logica a favore della fede. Trattasi quindi di un caso di omicidio prete-intenzionale, come detto nel titolo ma lo ripeto perché a me fa molto ridere questa cazzata. Il terzo caso di Knives Out ci arriva con calma, a quel momento: prima presenta tutti i personaggi che ruotano attorno alla parrocchia, gente che oscilla tra il devoto, l’opportunista e il disturbato, tramite un resoconto degli eventi del co-protagonista del film, l’Ana de Armas di turno, ovvero Josh O’Connor, qui nei panni del prete di menare Jud Duplenticy (faceva boxe, poi ha abbracciato la fede e ha iniziato a prendere comunque a pugni la gente ma assolvendosi da solo, comoda così). Dopo una furiosa omelia Wicks Waporub – tra l’altro nipote del parroco fondatore di quella particolare chiesa, che per non farsi mancare niente ha pure nascosto un tesoro da qualche parte prima di morire, quindi possiamo chiamarlo Sacer D. Ote e fare un caro saluto ai fan di One Piece che stanno leggendo – si sposta nel transetto di fianco all’altare, dove cade morto a terra, pugnalato alle spalle in modo impossibile.
La situazione pare pensata apposta per far dire frasi standard del genere come «Nessuno poteva entrare, nessuno poteva uscire» o «L’assassino è tra noi». Jud, come Marta Cabrera nel primo Knives Out (parlando del quale corre l’obbligo di ricordare che ha anche vinto due Premi Sylvester!), diventa il sospetto perfetto: ha avuto attriti con Wicks, ha un passato di violenza e soprattutto è quello esterno alla cerchia dei cultisti adoratori del Monsignore. Intorno alla vittima ruotano infatti la perpetua della chiesa Martha Delacroix (Glenn Close), il medico Nat Sharp (Jeremy Renner), lo scrittore che suo malgrado strizza l’occhio ai complottisti Lee Ross (Andrew Scott) il guardiano Samson Holt (Thomas Haden… Church! Eheh, buffo no?), la capo della polizia Geraldine Scott (Mila Kunis), più una serie di altri fedeli e satelliti con motivazioni che vanno dalla carriera politica al bisogno disperato di appartenere a qualcosa. Quando Blanc entra davvero nel caso, la sua indagine non è solo una raccolta di testimonianze: diventa subito un’esplorazione di una comunità che ha trasformato la fede in narrazione e la narrazione in scudo. Wake Up Dead Man richiede di prendere il contesto dell’omicidio come un’ostia narrativa: la morte di Wicks non è ovviamente un incidente isolato, ma un nodo di segreti legati a un’eredità nascosta e a questioni di fede che proiettano tutto quanto dalle indigeribili parti di Silence di Martin Scorsese o First Reformed di Paul Schrader. Tradotto: un pacco esagerato, in certi punti. È di gran lunga il film più cupo e intimista della saga, sempre caratterizzato da un ambiente sociale estremamente chiuso (l’alta famiglia borghese nel primo, la riccanza stravagante nel secondo, la Chiesa in questo caso) ma molto più interessato a tratteggiare i personaggi che a tessere la trama di un mistero interessante da seguire al di là degli aspetti più tecnici. Per capire il contesto di questa nuova indagine, però, conviene far partire un flashback su come la saga abbia trattato finora il genere.
«E se questa foto fosse solo una scusa per fare un’altra battuta orribile sui sacerdoti? Sì, insomma… un PRETEsto!» «Ti odio»
Il primo Knives Out (2019), era un giallo che faceva il furbo in modo nobile: ti dava la villa, la famiglia, il detective teatrale, ma allo stesso tempo passava dal “chi è stato?” al “come può reggere questa versione dei fatti?”. Era un ibrido felicissimo, il figlio segreto di Jessica Fletcher e del Tenente Colombo: dal modello whodunit classico de La Signora in Giallo (dove l’investigatrice interroga, collega, ricostruisce e lo spettatore, in teoria, ha accesso agli stessi indizi per provare a indovinare la soluzione), a metà film si passava al howcatchem della controparte “colombiana”, dove il pubblico conosceva già subito il colpevole e i dettagli del crimine, quindi il mistero non era nel chi ma nel come il killer sarebbe stato incastrato. Il secondo, Glass Onion (2022), invece, ha – come dirla gentilmente – rovinato tutto in modo orribile, scegliendo la strada della parodia più becera e presa per il culo possibile: un giallo che rideva del giallo e, nel mentre, si compiaceva di quanto fosse brillante nel dire al pubblico che era tutta una farsa. Per alcuni è stato un arguto gioco meta-cinematografico, per altri un giocattolo che faceva solo rumore e pretendeva applausi. Di certo è quello che ha spinto la serie più vicino alla satira pura, con l’enigma spesso ridotto a trampolino per la battuta o per la demolizione del personaggio e un generale fastidio di fondo per il ruolo che è stato affidato allo spettatore, mai coinvolto nel mistero ma solo nello sfottò.
Wake Up Dead Man per fortuna ha cambiato di nuovo marcia e lo ha fatto dichiarando amore a uno specifico sottogenere: il “delitto impossibile”, i misteri della stanza chiusa dall’interno che Agatha Christie prima e John Dickson Carr hanno trasformato in disciplina, quasi in religione parallela. Non a caso il film porta davvero Carr sul tavolo: a un certo punto Blanc si mette a ragionare per punti, come in una lezione, tirando fuori la grammatica del crimine impossibile (il tipo di momento in cui un giallo ti dice: «Sì, so che sai cos’è un giallo, ma adesso guardami mentre te lo disseziono pezzo per pezzo»). Questa dimensione è a suo modo il principale punto di forza: Johnson torna alla gioia del meccanismo, alla geometria degli spazi, dei tempi, in misura minore degli alibi, ma lo fa con un’estetica un po’ gotica che tinge tutto di colpa e superstizione. E, soprattutto, innesta sul rompicapo una vena più introspettiva del solito, quasi da dramma morale: fede e ragione non sono solo decorazione tematica, ma diventano due modi di leggere gli stessi fatti. Il paradosso è interessante: mentre la trama si fa più “tecnica”, l’aria si fa più umana. Il giallo, a tratti, scivola però sullo sfondo perché ciò che conta è il conflitto tra chi cerca una verità consolatoria e chi cerca una verificabile, anche quando fa male.
«Psss… ma l’autista del parroco indossa una divisa pret-a-porter?» «Ti prego, smettila»
I problemi arrivano proprio dove il film cerca di essere insieme rompicapo, divertimento e dramma spirituale. Il primo è l’ensemble: la saga ha sempre amato riempire la stanza di star, ma qui alcuni personaggi sono eccessivamente funzionali, sagome da guardare che non servono neppure a far rimbalzare i sospetti da una parte all’altra. Wake Up Dead Man non sballotta da una parte all’altra, il punto è sempre dimostrare se Jud ha ucciso Wicks o meno, a costo di rendere questi comprimari poco più che accessori. Il secondo problema è l’eccesso di tenacia nel nascondere le carte: il delitto impossibile è un genere che vive di occultamento, certo, però quando diventa troppo “perfetto” rischia di suonare come un trucco da prestigiatore che ti gira la testa non per meraviglia, ma per stanchezza. Un meccanismo che si inceppa nei pressi della soluzione, i cui dettagli richiedono una sospensione dell’incredulità un filo più elastica di quanto la promessa “Carr” farebbe intendere: si cerca chiaramente il colpo ad effetto, in certi momenti lo si ottiene ma in altri va a discapito di quella sensazione di inevitabilità logica che è la droga dei giallisti. Difficile fare esempi validi senza spoiler, quindi eccone uno espresso nel modo più neutro possibile: si vuole vendere allo sguardo indagatore del pubblico l’idea che le due persone davvero coinvolte nell’omicidio decidano di prendere una tazza di caffè comodamente seduti di fronte al cadavere e che una di queste capisca che c’è qualcosa che non va in una specifica tazza che non è stata ancora “assegnata”? Un po’ too much, no? Dove siamo qui, a Knivesoutopoli o a Topolinia?
Sicuramente Wake Up Dead Man è meno fastidioso del secondo per chi era allergico alla sua auto-soddisfazione, più coerente nel costruire atmosfera e tema. Ma gli manca quella componente di divertimento che ha reso il primo Knives Out un piccolo cult istantaneo: quella sensazione che il congegno non ti stia solo sfidando, ma anche seducendo. Qui questo bizzarro rituale di accoppiamento sapiosessuale è più austero, più “serio”. E va benissimo, se fosse solo una questione di tono: solo che, quando ne esci con la soluzione in tasca e un bel po’ di pensieri in testa, ti accorgi che manca una cosa semplice e fondamentale: il sorriso colpevole di chi, per due ore, si è divertito a sospettare di tutti.
Qui invece potete vedere dove sta il livello di umorismo delle battute di prima. Certo che pure voi… quante PRETEse!
Poster-quote:
“Le vie del Signore e dei film gialli sono infinite. È la segnaletica che lascia a desiderare”
Lou Ferragni, i400calci.com