di
Massimo Franco
Andreotti conosceva la Chiesa profondamente: e il Vaticano lo difese sempre, anche durante i processi
Negli Archivi di Giulio Andreotti conservati all’Istituto Luigi Sturzo di Roma c’è una cartelletta che contiene un disegno regalatogli dal regista Federico Fellini, suo amico dai tempi in cui era sottosegretario di De Gasperi per il Cinema, in coda a un messaggio di auguri. La data è quella del 14 gennaio 1991, suo 72 imo compleanno. Si vede un Andreotti benedicente, seduto su una sedia papale. E Fellini gli scrive: «Caro Giulio, desidero farti giungere un saluto festoso e beneaugurante nell’occasione del tuo compleanno e, sempre confidando nel sovrannaturale, fare voti per anni sereni e creativi; ti saluto con i sentimenti dell’amicizia e, anche se la sede non è ancora vacante, accetto di buon grado la tua benedizione. Sta bene caro Giulio. Buon lavoro e buona fortuna. Tuo Federico Fellini».
Omaggio significativo. Il rapporto tra Andreotti e il Vaticano non è stato solo di vicinanza: sarebbe riduttivo. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, l’aveva definito con una felice espressione «un cardinale esterno». Francesco Cossiga, ex presidente della Repubblica, diceva di lui che era «il Segretario di Stato permanente del Vaticano». E un vecchio liberale come Giovanni Malagodi una volta ebbe modo di affermare, a proposito della politica internazionale andreottiana: «È sempre utile al Vaticano, spesso utile all’Italia».
Prima di essere un italiano, Andreotti era un romano papalino, abituato a frequentare i corridoi e le stanze felpate di quel mondo prima ancora di fare politica. La sua cultura era un distillato di ironia, intelligenza e veleno curiali. Non a caso, quando scrissi la biografia su di lui, e mi ricevette nel suo studio privato a piazza San Lorenzo in Lucina, gli raccontai dell’avvertimento che mi aveva dato un suo amico cardinale. Stia attento, è un uomo pericoloso, sosteneva. «Veramente non ho mai torto un capello a nessuno», rispose Andreotti. Magari qualche suo amico, controreplicai. «Ma io non conosco solo pregiudicati!», fu la sua chiosa ironica e sottile. Eppure, quel mondo ecclesiastico che lo temeva, nutriva nei suoi confronti una ostentata ammirazione.
Non solo. È rimasta famosa una frase del socialista Rino Formica, che disse di lui: «Più passa il tempo, più mi convinco che Andreotti è un extraterreno. Noi socialisti l’abbiamo sempre giudicato sulla base dei fatti: questo è bene, questo è male. Non avevamo colto la sua appartenenza a un filone culturale e di pensiero che ha reso immortale la Chiesa. In lui ci sono duemila anni di storia. Ci sono il sacrificio di Cristo, la papessa Giovanna, i Borgia, l’Inquisizione e la diplomazia».
Anche al tempo dei processi, Andreotti fu difeso e quasi protetto dal Vaticano. Sorprese tutti il gesto plateale di Giovanni Paolo II che nel 1999 volle benedirlo davanti a una piazza gremita, a poche ore dalla richiesta di ergastolo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli: un’accusa infamante dalla quale poi fu assolto completamente.
Quando anni dopo gli fu chiesto se non fosse un po’ sconcertante un simile atteggiamento delle gerarchie cattoliche, rispose secco: «Non vi siete chiesti se per caso il sostegno che mi ha dato la Chiesa dipenda dal fatto che loro mi conoscono meglio?». Di certo, lui conosceva benissimo loro. Al punto da potersi permettere di dire a papa Giovanni XXIII, a proposito di un provvedimento che stava per prendere a favore di una comunità di suore: «Mi permetta, Santità, ma lei non conosce il Vaticano».
Lui lo conosceva talmente bene che in un libretto di appena nove pagine scritto nel 2000, intitolato 1° gennaio 2015, previde con anni di anticipo non solo il Giubileo del 2015 ma che lo avrebbe indetto un Benedetto XVI: solo che Joseph Ratzinger sarebbe diventato Benedetto XVI solo nel 2008.
Si tratta di un libriccino raro e introvabile, realizzato in 620 esemplari con una caricatura del vignettista Emilio Giannelli in copertina. La pubblicazione fu offerta dall’Arte Tipografica di Napoli per ringraziare l’allora senatore a vita per la visita che il 7 marzo 2000 volle fare all’antica stamperia napoletana in via San Biagio dei Librai. Lo pubblicarono gli editori Gabriele e Maria Teresa Benincasa, appassionati bibliofili napoletani.
Il rapporto con Giannelli è stato lungo e costellato di scambi epistolari e incontri ravvicinati. Una volta Giannelli gli mandò un suo libro che raccoglieva le vignette per il Corriere della Sera. In risposta, Andreotti gli spedì un biglietto in cui gli augurava «tutto quello che si merita».
Frase ambigua, che allarmò un po’ il senese Giannelli, il quale, incontrandolo alcune settimane dopo a una manifestazione a Firenze, gli chiese che cosa volesse dire quella frase. Risposta: «Me l’hanno insegnata in Vaticano». Giannelli non ne fu molto rassicurato.
Non si capiva se quelle parole contenessero un grazie o una sorta di velata intimidazione. La sua cultura impregnata di quella curiale gli consentiva di essere insieme fedele e spregiudicato, rispettoso e dissacratore. Quando Giovanni XXIII aveva abolito la sedia gestatoria, Andreotti spiegò che la decisione non nasceva dalla sua umiltà, come si pensava. Il papa gli spiegò che «non è umiltà. Io sono grasso e ho paura che mi facciano cadere…» (i sediari, ndr).
Il Vaticano si vedeva dai balconi del suo appartamento privato in corso Vittorio Emanuele, dall’altra parte del Tevere. E anche in famiglia, la consuetudine delle cene con cardinali e suore si respirava così naturalmente che i figli, da piccoli, giocavano al Conclave. Stefano e Serena, i due minori, lo fecero con un paio di amici fino a quando, simulando la fumata nera per una mancata elezione papale, bruciarono dei giornali che riempirono di fumo il salone di casa. Le prove finirono lì. Con il castigo deciso non dal padre, pronto ad assolverli come un papa buono, ma dalla signora Livia, la madre, detta «la Colonnella».
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15 dicembre 2025 ( modifica il 15 dicembre 2025 | 11:06)
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