Suzuki Izumi non scrive fantascienza. Scrive della disgregazione del tempo, della dissoluzione dell’io, dello sgretolarsi dell’intimità. Hit parade di lacrime – raccolta di racconti curata da add editore e tradotta da Ozumi Asuka (2025) – è una macchina narrativa che non immagina il futuro: lo osserva dal passato, come da un punto di fuga già in rovina. Attrice, modella, scrittrice, morta suicida a trentasei anni: la biografia di Suzuki è il primo livello della sua opera. Non perché la spieghi, ma perché le dà un corpo che esplode. I racconti non hanno trame in senso classico: sono scene ritagliate nel buio, frammenti che procedono per cortocircuiti mentali, salti di registro, mutazioni. La scrittura non serve mai la fabula: la sbriciola, accoglie l’interferenza. Nel primo racconto, Dolci parole, una giovane donna incontra un alieno. O forse un folle. O forse un uomo qualunque che si finge alieno per spiegare la sua estraneità al mondo. Il racconto è un monologo teso, sporcato da comicità, erotismo, rassegnazione. Tutto è giocato sull’ambiguità. Ma Suzuki non cerca risposte: le interessa l’attrito tra un corpo e un’idea, tra una ragazza che cammina a Shibuya e un linguaggio che ancora non ha parole. L’alieno – come tutta la fantascienza di Suzuki – è una figura-di-crisi: dell’identità, del desiderio, della relazione, della politica. È l’elemento impossibile che scardina il discorso. Intorno a lui, la voce narrante – lucida, ironica, disperata – oscilla senza pace.

Ad attraversare i racconti un dolore senza dramma. Suzuki non scrive tragedie: fa diagnosi. La sua lingua è precisa e delirante, affilata e scomposta. Frasi brevi, sbalzi semantici, salti logici che mimano il pensiero più che il discorso. Eppure tutto tiene, come se ogni frase seguisse una logica emotiva profonda, anche mentre il mondo si frantuma. La realtà di Suzuki non è surreale: è talmente reale da diventare altro. Apprendista strega, ad esempio, è uno dei racconti più feroci sulla convivenza coniugale degli ultimi cinquant’anni. Una moglie frustrata scopre di poter trasformare il marito in qualsiasi cosa. Lo fa. Prima donna, poi primate, poi bue, poi dinosauro. È un racconto tragicomico, ma anche una riflessione sul potere, la vendetta, la lingua come strumento di metamorfosi. La magia non è meraviglia: è sintomo. Risposta isterica al vuoto della comunicazione. Suzuki scrive dal punto di vista di chi non ha più tempo. Le sue protagoniste – giovani donne, spesso sole, mai del tutto vittime, ma mai davvero in controllo – sono figure liminari.

Abitano stanze claustrofobiche, città ipersessualizzate, rapporti che collassano sotto il peso dell’insensatezza. La fantascienza diventa un modo per raccontare l’esperienza più concreta: vivere in un mondo che ha smesso di funzionare, senza smettere di volerlo amare. Morte, malattia, sesso, depressione, amore e assenza d’amore: tutto è raccontato con un tono che non cede né al lamento né al cinismo. Suzuki riesce in qualcosa di raro: essere dolente senza sentimentalismo, furiosa senza retorica. La sua scrittura è politica proprio perché non si dichiara tale. Non fa proclami: mostra il crollo, dall’interno. Lo mette in scena con una lingua che, come un corpo ferito, vibra di troppo sentire. C’è qualcosa di profondamente contemporaneo in questa voce. Forse perché Suzuki aveva già visto tutto: la catastrofe dell’identità, la monetizzazione dell’affetto, l’impossibilità del linguaggio. Ha scritto come se sapesse che saremmo finiti così: immersi in un presente già postumo, dove l’unico modo per raccontare la verità è passare attraverso il delirio.