La notizia è arrivata in mattinata: tre ciclisti sono stati investiti e uccisi da un’automobilista. Un’altra tragedia sulle strade italiane. L’ennesima. E se il dolore per l’accaduto dovrebbe unire nella riflessione e nella richiesta di sicurezza, a colpire è invece la reazione di una parte dell’opinione pubblica. Commenti che non esprimono cordoglio, ma rancore. Che non interrogano, ma accusano. Che non invocano soluzioni, ma trovano capri espiatori.
Sotto le notizie di cronaca, su social network e piattaforme di informazione, si leggono commenti che partono da premesse completamente errate, alimentate da disinformazione e pregiudizio. Tra le più frequenti:
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“I ciclisti devono stare solo sulle ciclabili” – Una convinzione errata. Il Codice della Strada italiano non obbliga i ciclisti a usare piste ciclabili, salvo diversa segnalazione. Le strade sono di tutti e vanno condivise.
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“Se la strada è pericolosa, che ci fanno lì i ciclisti?” – Come se la colpa della pericolosità fosse di chi la percorre, non di chi la rende pericolosa con la velocità, la disattenzione o il mancato rispetto delle regole.
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“I ciclisti non rispettano mai le regole” – Un altro classico. L’infrazione del singolo diventa pretesto per negare diritti all’intera categoria, come se un automobilista che passa col rosso rendesse illegittimo l’uso dell’auto a chiunque.
A questi si aggiungono commenti venati di fastidio, disprezzo o addirittura rabbia nei confronti di chi sceglie la bici per sport, passione o spostamento quotidiano. Una visione della strada come spazio esclusivo per le auto, dove ogni presenza diversa è tollerata, al massimo, come eccezione.
Questi commenti non sono solo espressioni personali: sono sintomi di un problema culturale. Mostrano come larga parte della popolazione italiana percepisca la mobilità come una gerarchia, dove chi va più veloce ha più diritto. Dove il più vulnerabile è visto come ostacolo, non come cittadino da tutelare.
Proprio questa mattina, in modo tragicamente anticipatorio, era stato pubblicato un articolo sulle “Città 30” – le zone urbane in cui il limite massimo di velocità viene ridotto a 30 km/h per aumentare la sicurezza. Anche in quel caso, la reazione è stata in gran parte negativa: commenti che bollano il provvedimento come inutile, eccessivo, irrealistico. Come se l’Italia fosse fisicamente diversa dal resto d’Europa, dove i limiti a 30 sono ormai la norma e dove – dati alla mano – stanno contribuendo ad azzerare le vittime della strada.
In Italia, invece, si discute. Si deride. Si minimizza
Eppure, il numero è semplice: zero morti. Non una diminuzione. Non una riduzione significativa. Zero.
Un dato che, da solo, dovrebbe essere sufficiente per superare ogni perplessità. Ma se la sicurezza stradale diventa una questione ideologica, se la discussione pubblica ignora dati e norme per affidarsi a sensazioni personali e opinioni infondate, allora il dibattito perde la sua funzione civile.
Il problema, allora, non è solo la sicurezza stradale. È l’incapacità di leggere il tema per quello che è: un’urgenza collettiva che riguarda la vita delle persone, la qualità dello spazio pubblico, la convivenza. Continuare a ignorare questo significa legittimare una cultura della prepotenza e dell’indifferenza. E se non siamo in grado di riconoscerlo, forse dovremmo interrogarci anche sul nostro grado di maturità civica.