di
Giacomo Fasola

Sono trascorsi 60 anni dall’impresa dei sei studenti, che partirono in cerca di fortuna, fecero naufragio e si ritrovarono soli in mezzo al Pacifico. «Stabilivano regole, pregavano insieme, risolvevano i conflitti parlando»

Nuku‘alofa, capitale del Regno di Tonga, oggi è un piccolo centro sonnolento con 23 mila abitanti: mercati di frutta e case basse, una cattedrale bianca e la residenza reale. Da qualsiasi parte si rivolga lo sguardo, all’orizzonte si vede solo l’Oceano Pacifico

Quel mare che negli anni Sessanta, quando il Paese era povero e poco conosciuto fuori dall’Oceania, rappresentava per i giovani di Tonga una tentazione quasi irresistibile. Salire su una barca e partire, lasciarsi alle spalle l’isola dei genitori per lanciarsi alla scoperta del mondo.



















































Tutti ci pensavano, qualcuno lo fece davvero. Doveva essere un gioco o poco più, invece diventò una lotta per la sopravvivenza. È la storia di sei studenti di una scuola cattolica maschile: sei ragazzi che nel 1965, 60 anni fa, si trasformano loro malgrado nei “Robinson Crusoe del Pacifico”.

I ragazzi della scuola cattolica

L’arcipelago si compone di 170 isole, molte delle quali disabitate, situato nel triangolo polinesiano tra Samoa, Fiji e Niue. L’unico Paese dell’Oceania a non essere mai stato colonizzato rimane uno dei pochi luoghi in cui la cultura tradizionale è ancora viva.

A metà degli anni Sessanta la vita scorreva lenta: il lavoro nei campi e la pesca per gli adulti, la scuola per i ragazzi. Viaggiare da un’isola all’altra era un evento raro; il turismo, ancora di là da venire. Il centro dell’arcipelago, e insieme il suo cuore amministrativo, era (ed è) Nuku‘alofa, sull’isola di Tongatapu.

È qui che sono nati e cresciuti i sei adolescenti protagonisti di questa storia: Luke Veloso, 16 anni; Tevita Siola’a, detto David, 15 anni; Sione Fataua, 17 anni; Tevita Fatai Latu, detto Stephen, 17 anni; Kolo Fekitoa, 17 anni; e Sione Filipe Totau, detto Mano, 16 anni. Studiano tutti alla St. Andrew’s, una scuola cattolica dove le regole sono ferree e la disciplina severa. I sei ragazzi, invece, sono dei sognatori: amano il rugby e il mare, come tutti alle Tonga. Parlano spesso di fuggire in barca in cerca di avventure.

Il furto della barca

La sera del 19 luglio 1965, dopo la scuola, Tevita & co. smettono di sognare e decidono di passare all’azione. Si ritrovano al porto, salgono su un vecchio peschereccio di 24 piedi e levano l’ancora. Il piano? Raggiungere le Fiji, distanti 750 chilometri, o forse le Samoa Occidentali, a quasi 900 chilometri. Senza bussola, senza carte nautiche, con solo qualche banana e qualche cocco come provvista.

La verità è che i ragazzi non hanno le idee chiare, perché nessuno di loro sa cosa c’è dopo l’orizzonte. L’unica cosa che sanno è che, partendo col buio, la probabilità di non essere visti e guadagnare qualche ora di vantaggio è più alta.

Dopo pochi minuti l’isola di Tongatapu è già diventata un puntino dietro le loro spalle, e l’Oceano una tavola infinita davanti agli occhi. Ma la pace e l’euforia durano poco, perché presto si alza un forte vento. L’acqua liscia s’increspa, diventa onde e poi cavalloni. I sei marinai improvvisati si ritrovano nel bel mezzo di una tempesta: «Pensavamo di morire quella notte. La barca si spezzava e noi pregavamo» ha ricordato uno di loro, Kolo, in un’intervista radiofonica.

E invece non muoiono. La tempesta finisce e si ritrovano alla deriva, senza viveri e con la vela strappata, il timone spezzato, i contenitori d’acqua non più utilizzabili. Riescono chissà come a sopravvivere per otto giorni, quando finalmente avvistano un puntino nella foschia. Un cono scuro, roccioso, che ospita solo scogliere a strapiombo, grotte di basalto e una foresta: è l’isola vulcanica di ‘Ata, la più meridionale delle Tonga, 160 chilometri a sud-ovest da Tongatapu.

La vera storia dei sei adolescenti di Tonga sopravvissuti 15 mesi su un'isola deserta: «Ricordo fame, fatica e fratellanza. Sono partito bambino e tornato uomo»

Sull’isola deserta

All’epoca, come oggi, l’isola di ‘Ata era completamente disabitata. Ma non è sempre stato così. L’isola aveva ospitato una piccola comunità polinesiana fino al 1863: in quell’anno i «blackbirders», reclutatori di manodopera per le miniere sudamericane, rapirono gli abitanti per venderli come lavoratori forzati in Perù. A quel punto il re di Tonga ordinò agli abitanti rimasti di abbandonare l’isola, vietando da quel momento in poi di tornarci. 

Ecco perché quando i sei ragazzi vi approdano, a distanza di un secolo e dopo aver scalato la scogliera a mani nude, trovano terrazze di banani, resti di piantagioni abbandonate e qualche animale inselvatichito. Per il resto solo terra incolta, versanti ripidi e nessuna spiaggia. «Fu come arrivare sulla luna», racconterà Luke Veloso molti anni dopo.

Per i naufraghi comincia la vita da Robinson Crusoe. Usano rami appuntiti per accendere il fuoco, recuperano vecchi attrezzi arrugginiti. Ovviamente, devono procurarsi del cibo: cacciano i polli selvatici che scorrazzano sull’isola, raccolgono le poche banane rimaste sugli alberi rinsecchiti e scavano per raccogliere i taro, tuberi selvatici commestibili simili a patate giganti che crescono nelle zone tropicali.

Le regole per sopravvivere

I ragazzi si danno un’organizzazione, che non prevede alcuna gerarchia ma divide i compiti in maniera rigida. Quelle stesse norme che a scuola tanto li infastidivano, ora rappresentano l’unica possibilità di sopravvivere sull’isola deserta: «Se non avessimo collaborato, saremmo morti tutti» ha detto l’allora 17enne Kolo Fekitoa.

Dividono le giornate in turni: uno per badare al fuoco, uno per procurare cibo, uno per l’acqua. Se qualcuno dimentica il suo turno, per punizione deve fare ore di lavoro extra. Come ha scritto Rutger Bregman, che nel libro Una nuova storia (non cinica) dell’umanità (Feltrinelli) ha riportato alla luce l’impresa dimenticata dei sei adolescenti di Tonga: «Stabilivano regole, pregavano insieme, risolvevano i conflitti parlando. Se qualcuno si arrabbiava, veniva mandato a camminare fino a che non si era calmato».

L’isola, pian piano, diventa un luogo abitabile. Spuntano capanne costruite usando tronchi e foglie di banano, una cisterna viene ricavata scavando la roccia e convogliando l’acqua piovana in cavità più protette. Costruiscono una palestra rudimentale, con pesi e attrezzi di legno costruiti da loro, e un campo da rugby improvvisato.

Tra i resti di un antico accampamento trovano anche una chitarra arrugginita. Kolo la sistema usando fili ricavati da vecchie parti metalliche, e così ogni sera i naufraghi possono suonare e cantare davanti al fuoco, come facevano a Tongatapu.

Il dolore di genitori e amici

Nella loro isola, intanto, i familiari pregano e sperano, ma nessuno crede davvero che i naufraghi siano ancora vivi. Il pescatore proprietario della barca ha denunciato subito la scomparsa: la guardia costiera li ha cercati, ma le acque intorno a Tongatapu sono vaste, e senza una direzione precisa è come cercare un ago in un pagliaio.

Anche gli insegnanti e gli amici della St. Andrew’s, che quei ragazzi li conoscono bene, perdono le speranze. «Dopo un po’ smettemmo di parlarne» ha ricordato a distanza di anni lo zio di uno di loro, in un’intervista a una tv neozelandese: «Pensavamo che il mare se li fosse presi».

L’avventuriero australiano

E invece i sei dispersi sono ancora vivi, a 160 chilometri di distanza. E hanno aggiunto alle loro giornate un nuovo turno, quello di guardia: dalla mattina alla sera, uno di loro sale sulla piattaforma di roccia che offre uno sguardo a 360 gradi sull’oceano e scruta l’orizzonte, alla ricerca di una nave di passaggio.

Accade l’11 settembre 1966, a 15 mesi dall’arrivo dei ragazzi ad ‘Ata. Peter Warner, pescatore di aragoste e figlio di un magnate australiano, avvista del fumo nero salire dall’isola. Si avvicina e con grande sorpresa vede sei ragazzi seminudi, magri e segnati dal sole, che corrono verso il mare urlando in inglese: «We are from Tonga!».

Ha ricordato l’avventuriero australiano: «Non potevo crederci. Pensai che fossero selvaggi, e invece erano educati, organizzati… E vivi». Peter Warner carica i giovani sulla sua barca e li riporta a Tongatapu. Vedendoli sbarcare nel porto di Nuku‘alofa, a distanza di oltre un anno dalla scomparsa, la città intera di ferma.

Le famiglie dei ragazzi corrono al porto, i genitori scoppiano a piangere, alcuni svengono per lo choc. I ragazzi sono tornati.

La festa, però, non dura a lungo. Il proprietario del peschereccio rubato, distrutto e andato perso, non è per nulla commosso dal lieto fine: pretende un risarcimento e denuncia i sei ragazzi. A evitargli il carcere è ancora una volta Peter Warner, il loro salvatore. Indignato, il figlio del magnate australiano paga il risarcimento di tasca propria e assume alcuni dei naufraghi, ormai esperti di mare, sulla sua nave.

Che fine hanno fatto? 

Negli anni successivi, le vite di Luke Veloso, Tevita Siola’a, Sione Fataua, Tevita Fatai Latu, Kolo Fekitoa e Sione Filipe Totau prenderanno direzioni diverse. Alcuni si arruolano nella Marina tongana e altri diventano pescatori, alcuni restano a vivere a Tongatapu e altri se ne vanno.

La loro storia straordinaria finisce nell’oblio, o quasi. Nessun giornale, libro o film la racconta, ma a mantenerla viva ci pensano gli abitanti delle Tonga, che la trasformano in un racconto quasi mitico da tramandare oralmente. Sarà lo scrittore neozelandese Rutger Bregman, decenni dopo, a ricostruire l’incredibile impresa dei sei adolescenti che, soli e senza alcuno strumento, riuscirono a sopravvivere su un’isola per oltre un anno grazie alla cooperazione e alla disciplina condivisa.

E oggi, a 60 anni di distanza? Quattro di loro sono ancora vivi, e di tanto in tanto ripercorrono sui quotidiani o in tv l’esperienza che ha segnato le loro esistenze. Non risulta che nessuno, fra i sei giovani tongani che volevano scoprire il mondo e si ritrovarono soli in mezzo al Pacifico, abbia mai più rimesso piede ad ‘Ata (l’ha fatto solo qualche spedizione scientifica).

«Quando penso all’isola dove trascorremmo 15 mesi ricordo la fame, la fatica, ma anche la fratellanza» ha detto Sione Filipe «Mano» Totau. «Eravamo bambini. Siamo tornati uomini».

16 dicembre 2025 ( modifica il 16 dicembre 2025 | 09:44)