In che stato è Hong Kong? Qual è il significato della condanna di Jimmy Lai, editore di un giornale indipendente che rischia di finire i suoi giorni in carcere? La vicenda non ha avuto il rilievo che merita in Occidente, perché l’attenzione è rivolta altrove (Ucraina, Gaza). Merita invece una riflessione, da parte delle nostre società sempre inclini a una spietata autocritica.
Hong Kong era più libera quando era una colonia inglese, per quanto possa sembrare assurdo visto l’obbrobrio che circonda – giustamente – la parola “colonialismo”. Il fatto è che non esiste solo un colonialismo occidentale. La Repubblica Popolare cinese, erede dell’Impero celeste, è per l’appunto un impero coloniale, con possedimenti come il Tibet, lo Xinjiang, la Mongolia Interiore, che appartenevano a etnie e civiltà autonome.
Fare il punto su Hong Kong dopo la sua restituzione alla Cina è importante per più ragioni. Per capire quali ripercussioni può avere il tradimento delle promesse cinesi – Hong Kong doveva rimanere autonoma e il suo Stato di diritto avrebbe dovuto essere rispettato – verso Taiwan e altri Paesi soggetti alle mire di Pechino. Per immaginare il futuro di Hong Kong come piazza finanziaria globale. Tutto questo ha un impatto anche sulla comunità di espatriati italiani, che rimane importante ancorché ridimensionata dopo il Covid.
Sulla situazione di Hong Kong vi propongo qui una sintesi dello studio redatto da due esperte del Council on Foreign Relations, Lindsay Maizland e Clara Fong.
L’analisi del Council on Foreign Relations descrive Hong Kong come un caso emblematico di progressiva erosione di autonomia, libertà civili e pluralismo politico sotto la sovranità cinese, in netto contrasto con gli impegni assunti da Pechino al momento del passaggio di consegne dal Regno Unito nel 1997. Allora, la leadership cinese (nella fattispecie Deng Xiaoping) aveva promesso che Hong Kong avrebbe potuto conservare per cinquant’anni il proprio sistema capitalistico, un elevato grado di autonomia e libertà civili sostanzialmente assenti nella Cina continentale, secondo il principio di “un Paese, due sistemi”.
In altre parole: Hong Kong tornava a far parte della sua “madrepatria” però conservava un ordinamento giuridico ben distinto. Oggi, a oltre metà di quel periodo transitorio, la promessa appare ampiamente disattesa.
Il punto di svolta è individuato nell’imposizione, nel giugno 2020, della Legge sulla sicurezza nazionale da parte di Pechino, aggirando il Consiglio legislativo di Hong Kong. Da allora, il quadro politico e civile della città è stato trasformato radicalmente. Arresti di massa, smantellamento dell’opposizione democratica, restrizioni alla libertà di stampa e di espressione, riforme elettorali mirate a escludere qualsiasi candidato non allineato: tutto concorre a delineare un sistema sempre più simile a quello della Cina continentale.
L’adozione nel marzo 2024 dell’Articolo 23, che amplia ulteriormente la portata dei reati politici e rafforza il concetto di “interferenze esterne”, viene descritta come un ulteriore chiodo sulla bara delle libertà di Hong Kong.
Dal punto di vista giuridico-istituzionale, Hong Kong resta formalmente una Regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese, governata dalla Basic Law, la sua mini-Costituzione. Questo testo, ispirato alla Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984, garantiva alla città un’ampia autonomia, compresi poteri esecutivi, legislativi e giudiziari indipendenti fino al 2047. Tuttavia, Pechino ha sempre mantenuto il potere di interpretare la Basic Law, una prerogativa usata con crescente frequenza negli ultimi anni per giustificare interventi diretti negli affari interni della città.
L’analisi sottolinea che Hong Kong non è mai stata una democrazia pienamente compiuta neppure durante il periodo coloniale, ma evidenzia come le possibilità di evoluzione democratica siano state sistematicamente chiuse dopo il ritorno alla Cina. La Basic Law indicava come “obiettivo finale” l’elezione a suffragio universale del capo dell’esecutivo, ma senza scadenze precise. In pratica, il leader della città è sempre stato selezionato da un comitato elettorale dominato da interessi economici e figure filocinesi.
Le riforme del sistema elettorale introdotte nel 2021 e negli anni successivi hanno ridotto il numero di rappresentanti eletti direttamente, imponendo il criterio dei “patrioti che governano Hong Kong”, cioè candidati considerati leali al Partito comunista cinese.
Il caso dell’elezione del capo dell’esecutivo nel 2022 è emblematico: un solo candidato, John Lee, ex alto funzionario della polizia noto per la linea dura contro i manifestanti del 2019. Analogamente, il Consiglio legislativo e i consigli distrettuali sono stati svuotati di significato rappresentativo. Il crollo dell’affluenza alle urne nel 2023, scesa al 27,5 per cento rispetto al 71 per cento del 2019, è interpretato come un segnale di profonda disillusione e alienazione dell’elettorato.
Sul piano politico, la distinzione tradizionale tra campo democratico e campo pro-establishment è stata di fatto cancellata. I partiti democratici sono stati sciolti o resi inattivi sotto la pressione delle autorità, mentre molti leader sono stati incarcerati o esclusi dalla vita pubblica. I movimenti giovanili più radicali emersi dopo il 2014 e durante le proteste del 2019 sono stati smantellati, e l’idea di opposizione organizzata è ormai considerata una minaccia alla sicurezza nazionale.
Le proteste di massa rappresentano un altro filo conduttore dell’analisi. Dal tentativo fallito del 2003 di introdurre una legislazione sulla sicurezza, passando per l’Umbrella Movement del 2014, fino alle gigantesche manifestazioni del 2019 contro la legge sull’estradizione, ogni ciclo di mobilitazione popolare è stato seguito da una risposta repressiva sempre più dura da parte di Pechino e delle autorità locali.
La Legge sulla sicurezza nazionale del 2020 viene presentata come il punto di non ritorno: una normativa dai contorni volutamente vaghi, che criminalizza il dissenso pacifico e consente un controllo diretto di Pechino sul sistema giudiziario e sulle forze di sicurezza.
Le conseguenze sullo Stato di diritto e sulla libertà di stampa sono descritte come devastanti.
Testate storiche come Apple Daily sono state chiuse, centinaia di giornalisti hanno perso il lavoro, e il caso di Jimmy Lai – imprenditore dei media, cittadino britannico e figura simbolo del movimento pro-democrazia – diventa il paradigma della nuova Hong Kong. Il suo processo, durato anni e celebrato senza giuria, si è concluso con una condanna per collusione con forze straniere, suscitando dure reazioni internazionali.
La repressione non si limita ai cittadini di Hong Kong. L’analisi segnala un’estensione extraterritoriale della legge sulla sicurezza, con minacce, mandati di arresto e taglie rivolte anche a dissidenti all’estero, inclusi cittadini stranieri. Ciò ha avuto un forte effetto deterrente, contribuendo alla fuga di migliaia di residenti e a una diaspora politica senza precedenti.
Sul piano internazionale, la risposta è stata frammentata. Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea e altri Paesi occidentali hanno imposto sanzioni, revocato lo status commerciale speciale di Hong Kong e offerto canali di migrazione ai suoi cittadini. Tuttavia, molti Paesi – in particolare quelli legati alla Cina dalla Belt and Road Initiative – hanno sostenuto Pechino nelle sedi multilaterali, ridimensionando l’impatto delle pressioni diplomatiche.
Infine, l’analisi delle due autrici affronta la questione cruciale del futuro di Hong Kong come centro finanziario globale. Nonostante resti un hub di primo piano, i fattori che ne avevano fatto un unicum – libertà civili, Stato di diritto, prevedibilità giuridica – sono sempre più compromessi. Diverse multinazionali hanno ridotto la loro presenza o spostato funzioni regionali verso città come Singapore e Tokyo. Il mercato azionario e quello dei collocamenti in Borsa hanno subito un declino, aggravato dalle politiche restrittive durante la pandemia.
Alcuni osservatori ritengono che l’integrazione nella “Greater Bay Area” – allargata alle città più prospere del Guangdong come Shenzhen e Guangzhou – possa compensare queste perdite, ma il testo del CFR conclude lasciando aperta una domanda di fondo: è davvero possibile mantenere il ruolo di Hong Kong come piazza finanziaria globale senza le libertà che l’hanno resa tale?
Qui mi permetto di azzardare una mia previsione. Il numero di espatriati occidentali (italiani inclusi) si è ridotto negli anni post-Covid e questo ridimensionamento del personale delle multinazionali sembra anticipare una risposta. In parte questo riflette le preoccupazioni sulle libertà, non in senso lato – i capitalisti occidentali non sono mobilitati in difesa di Jimmy Lai e altri dissidenti – bensì in modo molto specifico: ci sono buone ragioni per temere che anche la libertà dei manager occidentali (o giapponesi, sudcoreani, taiwanesi) stia diventando più precaria.
Sullo sfondo c’è poi un problema macroeconomico generale. Hong Kong è una piattaforma finanziaria globale, ma negli ultimi anni è sempre più integrata alla Cina continentale, e quindi la sua attrattiva è proporzionale a quella della Repubblica Popolare. Le politiche economiche di Xi Jinping hanno imboccato una via nazionalista e autarchica, molto prima che apparisse all’orizzonte Donald Trump con i suoi dazi.
La Cina attira meno gli investitori esteri, per sua stessa scelta. Il suo mercato si è chiuso progressivamente, come hanno sperimentato a proprie spese perfino dei settori che un tempo lo consideravano una Bengodi, come l’industria italiana e francese del lusso. In questo contesto più generale è difficile che Hong Kong prosperi; lo spostamento di multinazionali verso sedi concorrenti come Singapore e Tokyo è una scelta razionale.
16 dicembre 2025
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