di
Federico Fubini

Gli affari di grossi investitori americani, in stretta collaborazione con la Casa Bianca e d’intesa con il Cremlino, stanno diventando sempre più leggibili

Iniziano a profilarsi, nelle motivazioni, alcune delle ultime svolte diplomatiche dell’America di Donald Trump nei rapporti con la Russia

Due in particolare: la gestione delle sanzioni sul petrolio e l’apertura degli Stati Uniti al riconoscimento alla Russia di alcuni dei territori ucraini presi con la forza in questi anni. Su entrambi i fronti gli affari di un certo numero di grossi investitori americani, in stretta collaborazione con la Casa Bianca e d’intesa con il Cremlino, stanno diventando sempre più leggibili. Prende così forma a margine nei negoziati sulla guerra un sistema oligarchico degli affari in cui l’America trumpiana sembra quasi inspirarsi al modello russo.
Vediamo entrambi questi passaggi, uno per uno.



















































La cessione di Lukoil (e dei giacimenti)

Il sintomo che qualcosa sta accadendo nel business fra russi e americani, non solo nella politica, è arrivato alla fine della scorsa settimana con un annuncio tenuto il più possibile in sordina. Per la seconda volta l’amministrazione Trump ha rinviato, dal 13 dicembre al 17 gennaio, la scadenza per la cessione delle attività estere del gruppo privato russo Lukoil (la prima scadenza era stata fissata in ottobre al 21 novembre, per poi essere spostata all’ultimo momento).

La posta in gioco è tutt’altro che trascurabile. Oltre che vari uffici di trading in Svizzere e a Singapore, Lukoil ha soprattutto partecipazioni di rilievo in grossi giacimenti di greggio in Iraq (West Qurna 2), Kazakhstan, Uzbekistan e Messico, oltre a una raffineria in Bulgaria e una rete di distribuzione in Finlandia, fra le altre proprietà. Il valore di mercato di questo patrimonio sarebbe stimato in 22 miliardi di dollari, in condizioni normali.

I prezzi al ribasso delle proprietà 

Ma queste sono tutt’altre che condizioni normali. Il sistema delle sanzioni americane è tale che Lukoil è di fatto costretta a cedere le sue attività fuori dalla Russia entro scadenze stringenti e la stessa mancanza di tempo obbliga il gruppo ad accettare offerte molto al ribasso. Attivi per 22 miliardi di euro potrebbero passare di mano a prezzi molto inferiori: di fatto quasi un esproprio di guerra, simile a quello che il Cremlino ha imposto alle compagnie occidentali che uscivano dalla Russia nel 2022. Dalla rete dei ristoranti McDonald’s, agli impianti Volkswagen, fino ai marchi della birra raccolti sotto il cappello di InBev, le proprietà di americani e europei furono forzosamente trasferite a oligarchi di gradimento del Cremlino per la metà o meno del loro valore reale.

L’interesse di gruppi americani

Oggi qualcosa di simile sta accadendo in direzione opposta. Una serie di grossi gruppi americani e non solo, tutti con forti legami con la Casa Bianca di Trump, girano attorno alla preda delle proprietà estere della Lukoil. Fra i pretendenti le major statunitensi dell’energia, in primis Exxon Mobil e Chevron, ma anche il gruppo energetico Mol che è campione nazionale nell’Ungheria di Viktor Orban (il quale interpreta allo stesso tempo una parte da stretto alleato sia di Trump che di Vladimir Putin).

L’interesse del private equity Carlyle

Una svolta però è arrivata circa due settimane fa con una cena fra Trump stesso e David Rubenstein, fondatore e direttore esecutivo del maxi-fondo di private equity americano Carlyle. Rubenstein, che lavorò nell’amministrazione democratica di Jilly Carter ma coltiva da sempre stretti rapporti con i leader repubblicani attraverso Carlyle, ha espresso interesse nelle proprietà di Lukoil. Appare dunque molto probabile che Trump abbia fermato gli orologi della vendita per dare tempo a Carlyle di preparare la propria offerta.

Poco importa se i conflitti d’interesse sono visibili dappertutto: oltre che un investitore, Rubenstein è anche un influente commentatore di politica ed economia americana per Bloomberg. Ma ormai le relazioni di tipo oligarchico “alla russa” sembrano ormai prevalere nel mondo del business attorno a Donald Trump.

La centrale nucleare di Zaporizhza e i data center Usa

Così anche per un’altra partita, quella attorno alla centrale nucleare di Zaporizhza. Essa oggi è sotto il controllo dell’occupazione dell’esercito di Mosca, con una condivisione della produzione elettrica al 50% con la parte libera dell’Ucraina. A Putin, gli emissari trumpiani Steven Witkoff e Jared Kushner hanno già segnalato che l’amministrazione Usa sarebbe disposta a riconoscere la sovranità ufficiale di Mosca sopra la parte invasa di Zaporizhza (centrale nucleare inclusa). Sarebbe una rottura radicale con un secolo di dottrina di politica estera americana, che si rifiuta di riconoscere i territori strappati ai Paesi con l’uso della forza.

Ma nel caso di Zaporizhza sembra esserci una ragione d’affari: si studia un data center americano per l’intelligenza artificiale nella parte sotto controllo russo dell’area, alimentato proprio dall’elettricità a basso costo della centrale. E per questo l’America oggi è disposta a seppellire i principi che essa stessa volle per la creazione delle Nazioni Unite ottanta anni fa.       

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16 dicembre 2025