Dopo 26 anni di trattative, rinvii e ripensamenti, l’accordo di libero scambio tra Unione europea e i paesi sudamericani del Mercosur sembra di nuovo vicino alla conclusione. Ursula von der Leyen dovrebbe volare in Brasile il 20 dicembre per firmarlo. Dovrebbe, perché prima c’è un passaggio tutt’altro che scontato: giovedì il Consiglio europeo dovrà decidere se procedere o rinviare ancora.
Il problema non è tanto il Mercosur, quanto l’Unione europea. L’accordo è politicamente fragile perché mette in evidenza una frattura che l’UE non ha mai davvero risolto: industria contro agricoltura, apertura commerciale contro protezionismo, strategia geopolitica contro consenso interno.
Proprio oggi il Parlamento europeo ha approvato l’introduzione di una clausola di salvaguardia sulle importazioni agricole, il cosiddetto “freno d’emergenza”. In base al testo votato dagli eurodeputati, la Commissione dovrebbe avviare un’indagine sull’eventuale attivazione di misure protettive quando le importazioni di prodotti agricoli sensibili aumentano in media del 5 per cento su un periodo di tre anni. È un tentativo di rassicurare i paesi più scettici, ma difficilmente basterà a sciogliere tutti i nodi politici.
In sintesi, l’accordo UE–Mercosur prevede l’eliminazione progressiva dei dazi su oltre il 90 per cento delle merci. Favorisce soprattutto l’export industriale europeo e quello agricolo sudamericano. È stato politicamente concluso nel 2019, ma non è mai stato ratificato e, per entrare in vigore, deve ottenere l’approvazione sia degli Stati membri sia del Parlamento europeo. Il punto critico è sempre lo stesso: i paesi con una forte industria esportatrice vogliono più libero scambio, quelli con un’agricoltura politicamente influente chiedono protezione. Tutti, almeno a parole, invocano standard ambientali più alti, ma senza accordarsi davvero su come farli rispettare.
Dal punto di vista economico l’accordo è considerato vantaggioso per l’Unione europea. L’UE è il secondo partner commerciale del Mercosur dopo la Cina e prima degli Stati Uniti: nel 2023 rappresentava il 16,9 per cento degli scambi totali del blocco sudamericano. Se entrasse in vigore, l’intesa stimolerebbe le esportazioni europee di automobili, macchinari, vini e liquori, e quelle latino-americane di carne, miele, riso, soia e zucchero. C’è poi una dimensione geopolitica: un accordo con quest’area faciliterebbe l’accesso europeo a materie prime critiche e rafforzerebbe il sistema multilaterale del commercio, indebolito negli ultimi anni soprattutto dalle politiche statunitensi.
Germania e Spagna sono i principali sostenitori dell’accordo. Berlino lo considera uno strumento essenziale per rafforzare l’export industriale europeo e per diversificare i mercati in una fase di rapporti più complicati con Cina e Stati Uniti. Madrid condivide questa impostazione e vede nel Mercosur un’area naturale di espansione commerciale, anche per ragioni storiche e linguistiche. Entrambi i paesi accettano l’idea di clausole ambientali e di salvaguardia, ma non vogliono che queste si trasformino in un veto di fatto.
La Francia è invece il principale paese contrario. Emmanuel Macron ha chiesto apertamente il rinvio del voto al Consiglio europeo, sostenendo che le tutele previste per l’agricoltura non siano sufficienti. Dietro la posizione francese c’è una combinazione di interessi economici e calcoli politici: l’agricoltura è un settore molto influente e l’opposizione di Marine Le Pen all’accordo è netta e facilmente spendibile sul piano elettorale. Polonia e Ungheria sono da tempo contrarie al patto, mentre Austria e Irlanda tendono a schierarsi su posizioni simili a quelle francesi.
L’Italia mantiene una posizione ambigua. È un paese fortemente manifatturiero e il secondo esportatore dell’Unione europea; l’agricoltura pesa per poco più del 2 per cento del PIL, contro circa il 24 per cento dell’industria e il 74 per cento dei servizi. Numeri che renderebbero abbastanza chiaro quale sia l’interesse economico nazionale. Eppure il governo è diviso: al voto di oggi Forza Italia si è espressa a favore, la Lega contro, Fratelli d’Italia si è astenuta. Anche l’opposizione è frammentata, con Partito Democratico e Verdi favorevoli e il Movimento 5 Stelle contrario.
Come in Francia, anche in Italia interesse nazionale e interessi elettorali non coincidono sempre. Questa indecisione, però, rende Roma uno dei paesi decisivi: una sorta di swing state europeo. Il suo sostegno potrebbe sbloccare la ratifica dell’accordo; la sua opposizione potrebbe affossarlo, probabilmente per molto tempo.