Il pallino è nelle mani di Giorgia Meloni. E lei ha deciso di giocare la partita fino in fondo. L’Italia dice no al Mercosur, il trattato commerciale con il gruppo di paesi latinoamericani del Mercado Comum do Sul – Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay – impaludato da 25 anni e destinato a restare ancora fermo a nastri di partenza ormai impolverati. Il via libera era atteso questa settimana a livello di Stati membri – con gli agricoltori a bordo dei loro trattori pronti a invadere le strade di Bruxelles a Consiglio europeo in corso – poi sabato Ursula von der Leyen e Antonio Costa sarebbero volati a Brasilia, accolti dal presidente Lula per firmare l’accordo lumaca, mettendo fine a una saga che va avanti da un quarto di secolo. Poi però, a ridosso del giorno X, è arrivato il no della Francia, il “ni” dell’Italia e il silenzio di Roma. Di pietra, considerando che se anche il nostro Paese si fosse messo di traverso avrebbe fatto saltare il banco, non consentendo all’Ue di raggiungere la maggioranza qualificata indispensabile a far passare l’accordo. A rompere il silenzio ci ha pensato la premier in persona, affrontando il dossier con von der Leyen a viso aperto, al termine della cena dei volenterosi lunedì sera a Berlino, come anticipato da ilMessaggero.it. Un lungo faccia a faccia che ha fatto slittare di un’ora e mezzo il volo di rientro a Roma. Necessario, vista la delicatezza della questione e il rapporto privilegiato della presidente del Consiglio italiana con la numero 1 di Palazzo Berlaymont.
Ma a questa storia manca un tassello, una tessera decisiva per comporre il puzzle. E viaggia sulla rotta Roma-Parigi. Perché domenica Emmanuel Macron e la premier si sono sentiti al telefono, per fare sponda e giocare di squadra arenando il trattato. Su cui sia Francia che Italia hanno sempre nutrito e manifestato forti dubbi, convinti che aprire i mercati interni ai prodotti agricoli sudamericani avrebbe messo seriamente a rischio il comparto, minato da una concorrenza a cui sarebbe difficile tener testa. D’altronde basta guardare ai prezzi di frutta e verdura nei nostri carrelli per comprendere la portata del rischio. Per ridurli e convincere gli scettici, la Commissione ha lavorato alacremente, fino a introdurre la sospensione delle concessioni in caso di aumento delle importazioni o di crollo dei prezzi oltre il 10%. Ieri dal Parlamento Ue è arrivata un’ulteriore stretta, facendo scendere l’asticella dal 10 al 5%, il tetto chiesto a gran voce dalle associazioni agricole che tuttavia continuano a puntare i piedi per mandare all’aria il negoziato dalla A alla Z. Mentre von der Leyen non si arrende e tenta il tutto per tutto, inserendo nel provvedimento omnibus sulla sicurezza alimentare un giro di vite per l’uso di pesticidi nei paesi Mercosur e, al contempo, un allargamento delle maglie per i produttori europei. «Stiamo lavorando in Europa – assicura il ministro Francesco Lollobrigida – per ricomporre in quadro. Per farlo abbiamo chiesto delle garanzie e alcune le abbiamo già ottenute come governo italiano. Se ci vorrà qualche giorno in più per un accordo ottimo invece che solo buono, anche il nostro sistema industriale lo capirà».
I NUMERI DEI SIGNOR NO
Della minoranza di blocco fanno parte Francia, Polonia, Austria, Ungheria (in forse anche Irlanda e Belgio), con Roma che si è ritrovata ago della bilancia, aggiungendo un +1 indispensabile per far slittare il sì al Mercosur, perché per fermare la ratifica occorrono 4 Paesi contrari e rappresentativi di almeno il 35% della popolazione Ue. Ecco dunque che per Macron – che sul trattato con i paesi sudamericani ha il fiato sul collo di Marine Le Pen, indiscussa paladina degli agricoltori – era questione decisiva portare Meloni dalla sua. E benché tra i due non corra buon sangue, sul Mercosur la premier, che ha nel mondo agricolo uno degli zoccoli duri del suo elettorato, si è trovata sulla stessa linea d’onda: servono più garanzie, abbiamo ottenuto molto ma si può spuntare di più. Benché fonti francesi sostengano che in realtà monsieur le président fosse convinto che Roma non avrebbe mai fatto mancare il suo sostegno alla numero 1 di Palazzo Berlaymont. E Macron, sotto sotto, sperasse in un via libera al Mercosur con il voto contrario della Francia. Fantapolitica? Chissà. Fatto sta che von der Leyen, salvo accordi in zona Cesarini, ora dovrà fare i conti con un rinvio e tempi incerti. La speranza è di chiuderla già a gennaio, ma mandare a monte l’appuntamento di Brasilia è già un duro colpo da incassare. Col Mercosur che di fatto torna in stand-by, in barba a chi – il tedesco Friedrich Merz e Pedro Sanchez in testa – vede nel trattato un’opportunità enorme da cogliere, con nuovi mercati prateria per gli esportatori europei, fiaccati dai dazi Usa e della concorrenza sfrenata della Cina.
Quando vedrà la luce – dopo un travaglio infinito – il trattato Ue-Mercosur creerà la più grande zona di libero scambio al mondo, con oltre 700 milioni di consumatori potenziali, incentivati ad acquistare grazie alla sforbiciata ai maxi-dazi oggi esistenti sulle auto (35%), sui macchinari (14-20%) e sui farmaci (fino al 14%) esportati dall’Europa. Secondo le stime della Commissione europea, l’intesa coprirebbe oltre il 90% degli scambi commerciali tra i due blocchi.
IL CONFRONTO SUI FROZEN ASSET
Con Meloni, von der Leyen ha affrontato anche il tema dei frozen asset russi, cercando di convincere la premier della validità dell’impianto giuridico messo a punto. E cogliendo qualche spiraglio nell’italiana, meno granitica nei suoi dubbi ma ferma nel chiedere che non sia l’Europa a pagare un prezzo insostenibile. Una riflessione che ha riguardato anche il fabbisogno di Kiev: lo sforzo degli europei potrebbe essere ridimensionato a 90 miliardi in due anni, meno della metà dei 190 preventivati. A Bruxelles si ragiona e si fa di conto a 24 ore di un summit che potrebbe passare alla storia. Ma che rischia di chiudersi con un nulla di fatto, proprio come per il Mercosur.
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