di
Marta Serafini
I civili costretti alla fuga: «Perché ci facciamo la guerra». Reti sopra le strade e mezzi blindati: così i soldati provano a fermare i droni russi
DALLA NOSTRA INVIATA
REGIONE DI DONETSK – In una lettera del 1921 ai compagni, Lev Trockij descriveva il Donbass come un luogo «tossico». Avanti veloce sino a oggi, entrare nella regione di Donetsk significa varcare la soglia di una delle zone più depresse e intrise di sangue, ma soprattutto vuol dire muoversi nell’epicentro di una delle trattative più complesse della nostra epoca, dopo quattro anni di un conflitto che è il più grande mai vissuto dall’Europa dal 1945 a oggi.
Nelle stesse ore in cui passiamo il confine con la vicina Dnipropetrovsk, i colloqui a Berlino sono ancora in corso. Pochi chilometri prima, a Pavlohrad, nuovo hub dell’esercito ucraino, una nuvola di fumo nero e grigio si alza sul ciglio della strada. Un drone di Mosca ha appena centrato un deposito di armi che sta esplodendo. Ma il vero bentornati nel Donetsk è il checkpoint dell’esercito di Kiev, simbolo dell’orgoglio nazionalista, costellato un tempo di bandiere e insegne, raso al suolo un mese fa da una scarica di missili russi.
Il bastione
Una trentina di chilometri e si arriva a Dobropillia ma soprattutto a Pokrovsk, al centro di una feroce battaglia che nelle ultime settimane si è intensificata. «Proprio oggi abbiamo sbaragliato i russi che cercavano di entrare a Novopavlikva (la periferia meridionale della città, ndr). Resistiamo, ma se ci venisse dato l’ordine di ritirarci lo faremmo, non vogliamo morire per difendere delle macerie», spiega «Condor», comandante della divisione droni della 59esima brigata. Volodymyr, soldato della brigata Spartan della Guardia nazionale, si sposta a bordo di un quad tra un posto di blocco e uno dei pochi benzinai ancora aperti. Ha la faccia da ragazzino. Si ferma per una pausa sigaretta: «Noi continuiamo a resistere, non si vede perché dovremmo cedere territori ai russi che non riescono a prenderseli combattendo. Ma la guerra non è per tutti. C’è chi se ne sta al caldo a Kiev e a Odessa e chi sta al potere dovrebbe ricordarselo. Ma sembrano tutti distratti».
La regione è stata fortificata con lunghi fossati protetti da filo spinato e denti di drago. Le fortificazioni verso ovest sono raddoppiate rispetto all’estate, segno che a Kiev si aspettano nuovi assalti. Le strade sono lunghe distese di ghiaccio coperte da reti da pesca, nelle quali rimangono spesso intrappolati i cani randagi. Carcasse di fagiani e pezzi di Fpv restano a penzoloni mentre mezzi blindati coperti da spesse reti di metallo e sormontati da strane antenne sfrecciano a gran velocità. Solo così si evita la morte che arriva dal cielo nel Donetsk. La regione è depressa, le fabbriche per la maggior parte hanno chiuso. Davanti a una miniera colpita da un missile, si disperano due operaie mentre aspettano invano l’autobus e la temperatura scende in picchiata a -5°. «Venivamo qui a lavorare, ora veniamo per pulire i detriti e i vetri rotti, che senso ha?».
Città (quasi) fantasma
Più a nord, nel cuore della cintura delle fortezze, a Kramatosk, Olga e Mikhailo si lamentano davanti all’ingresso della stazione, la stessa dove nei primi giorni di invasione sono morti a decine bombardati da Mosca mentre fuggivano. Il mese scorso l’amministrazione regionale ha deciso di fermare i treni per i civili. E ora per scappare a Kharkiv bisogna prendere il bus. «Ma costa troppo», sospira la signora Olga che ha i denti tutti d’oro e a stento sa leggere. In città i soldati e i mezzi blindati sono ovunque, pronti all’assalto finale di Mosca. I soldati si fermano a mangiare da Celentano pizza, che non ha chiuso nemmeno un giorno in tutta la guerra.
Meno attivo sembra invece il sindaco che spiega come ogni domanda, anche la più semplice — volevamo sapere quanti civili fossero rimasti in città —, d’ora in avanti vada rivolta all’amministrazione militare che però non risponde.
Aspetta il suo destino Kramatorsk, l’ultima città del Donetsk dove ancora si sentivano le risa dei bambini per strada. E che si prepara alla battaglia mentre proprio lì al benzinaio un drone ha ucciso due colleghi ucraini il mese scorso.
Più deserta è Sloviansk. Meno i civili e meno i militari in giro. Al mercato, una coppia di pensionati sta comprando da mangiare, qualche patata e le barbabietole per il gulasch. «Non abbiamo elettricità e riscaldamento da settimane, mentre Zelensky si compra ville e appartamenti all’estero», si lamenta Gheorghy mentre la moglie lo tira via per la giacca. «Basta dire queste sciocchezze che senti in tv», lo sgrida. È il sentimento filorusso che dilaga sottotraccia. Del resto chi è rimasto non sa bene cosa augurarsi. «Hanno paura di andarsene, hanno paura di restare. Io posso offrire loro solo la preghiera», sintetizza padre Yuri. «Anche perché gli uomini possono fare pure gli accordi, ma poi è Dio a decidere».
Chi ha perso tutto
Tra gli ultimi centri di evacuazione della regione, Oleksandrivka. È qui che opera Emergency. «Per ora vediamo un flusso di famiglie abbastanza contenuto. Arrivano tutte con poche cose, chiuse nelle loro borse, senza una chiara idea di dove andare a stare. Ma se i russi dovessero avanzare ci aspettiamo un aumento del numero degli sfollati», spiega Luca Rifiorati, coordinatore nella regione della ong italiana. Ma a preoccupare è anche il fronte sud. «Perché se le forze di Mosca dovessero sfondare su Zaporizhzhia allora la crisi umanitaria del Donetsk sarà niente in confronto», avverte Enrico Vallaperta, responsabile delle attività mediche di Medici Senza Frontiere nella regione di Dnipro.
Di rientro a Pavlohrad, in un centro sfollati, Leonid sta bevendo un the caldo. Ha lasciato due giorni fa il suo villaggio vicino al fronte, in una notte ha perso tutto. La sua casa. E sua moglie è rimasta ferita. «Dovevo andarmene prima, ho aspettato troppo». Ha le mani grandi, le unghie sporche di grasso. Ha 75 anni ma lavora ancora come meccanico. «Mio padre era russo di Vladivostok, mia madre ucraina. Io stesso ho partecipato alle operazioni di evacuazione di Chernobyl insieme ai bielorussi. Non vedo perché dobbiamo ancora combatterci. Certo, forse la guerra conviene a qualcuno. Ma di sicuro non a noi, che siamo povera gente».
17 dicembre 2025
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