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Gian Antonio Stella

Sara Cordella è perito e consulente in materia grafologica giudiziaria, docente di grafologia e presidente della Scuola veneta di grafologia: «Io, folgorata dalla lettera d’addio di Tenco. La “E” di Enzo Tortora? Un abbraccio»

Mai fidarsi delle calligrafie. Avete presente Donato Bilancia, il «mostro della Riviera» condannato a 13 ergastoli per 17 omicidi tra il ’97 e il ’98 e morto di Covid in carcere? «Aveva una grafia bellissima, equilibratissima. Piena di personalità. La mostro spesso a tanti e li sfido: “Ditemi che lavoro fa questo”. Uno dice: l’avvocato… Un altro: il giornalista… Tutti, dico tutti, pensano a una figura positiva. “Il serial killer”, dico, “soprattutto di poverette che facevano la vita”. Non ci credono. Ma è così».

Sara Cordella, veneziana, papà e nonno ferrovieri, prima laurea in filologia medievale, esperienze come supplente alle medie prima di prendere la sbandata decisiva per la grafologia («Non perdevo una puntata di Telefono giallo e una sera Corrado Augias mostrò la lettera d’addio scritta da Luigi Tenco prima di spararsi a Sanremo: mi si inchiodò nella testa…») fino a imboccare la nuova vita di perita giudiziaria grafologica, ha scritto un libro che esce oggi per Aliberti. S’intitola La linea oscura. Stragi, trame e segreti d’Italia narrati dalla grafologia, è firmato col fotoreporter Pierdomenico Corte Ruggiero, e tenta una ricostruzione di vari misteri italiani, dal caso Moro al giallo di Emanuela Orlandi, attraverso una chiave di lettura diversa: le firme di una infinità di protagonisti. 



















































Da Licio Gelli (che pur avendo tessuto una rete come la P2 aveva una grafia che più che a un burattinaio richiamava «a un millantatore») a Tina Anselmi che scriveva «slanciata in avanti» con «caratteri morbidi ma decisi, un po’ come i passi di chi ha imparato a scalare monti veri, durante la Resistenza, e monti simbolici, nella battaglia per i diritti». 

La grafologa Sara Cordella: «Serial killer, politici e vip, dalla firma leggo l'anima. La scrittura più brutta? Madre Teresa di Calcutta»

Da Henry Kissinger («Un uomo che traccia percorsi come vuole lui, percorsi che possono confondere se camuffati da un’apparenza che ondeggia tra il bonario e il distratto, ma in realtà appartengono a un padrone delle strategie…») a Enrico Berlinguer che coi «riccioli della sobrietà (…) conferma che ci troviamo di fronte a un uomo che ha fatto di determinazione e integrità le sue linee guida».

La grafologa Sara Cordella: «Serial killer, politici e vip, dalla firma leggo l'anima. La scrittura più brutta? Madre Teresa di Calcutta»

E giù giù ecco Silvio Berlusconi, Giovanni Leone, Mino Pecorelli, Enzo Tortora («La E iniziale si apre come un arco che abbraccia tutto il cognome: è la memoria di una vita spesa in dialogo con il pubblico, quasi un inconscio richiamo a Portobello, la piazza delle idee dove il pensiero poteva correre libero…»), Giovanni Falcone, Tommaso Buscetta…

La grafologa Sara Cordella: «Serial killer, politici e vip, dalla firma leggo l'anima. La scrittura più brutta? Madre Teresa di Calcutta»

Par di capire che sia la firma quella che dice tutto.
«Magari tutto no, ma molto sì: la firma è un biglietto da visita. Ognuno sceglie il proprio. E quella di Donato Bilancia, per tornare a lui, mi inquietò tantissimo. Era spaventosa. Era una pistola, a guardarla bene. Con vicine due croci. Agghiacciante».

Quindi esiste una «firma dell’assassino».
«Non proprio. Non è che studiando mille firme si possano individuare gli assassini o i possibili assassini… Magari…».

Sbaglio o lei fu chiamata a esaminare una volta migliaia di lettere?
«Sì e no. Sul caso di Yara Gambirasio, la ragazzina uccisa una quindicina di anni fa in provincia di Bergamo. Erano arrivate, quella volta, trentamila lettere… Una quantità mostruosa. Non è che le esaminai tutte. Me ne diedero da studiare alcune più significative. Ne ricordo una tutta nera con dei ritagli di giornale… Dovevamo capire quali lettere anonime potevano portare a qualcosa o no».

Si può smascherare anche una scrittura in stampatello?
«Luigi Chiatti, quello che fu chiamato “il mostro di Foligno”, scriveva lettere anonime addirittura con il normografo. In quel caso lui stesso si firmava “il mostro”. Ma erano lettere attendibili perché raccontavano nei dettagli cosa va fatto, cosa aveva intenzione di fare… In ogni caso sì, si può riconoscere anche la lettera in stampatello. In genere, in quei casi, partiamo dalle righe finali».

Perché?
«Chi scrive mette più attenzione nella dissimulazione all’inizio, poi via via sempre un po’ di meno. Quello che chiamiamo lo “sforzo attentivo” si abbassa. Magari si notano le “aste con il concavo a sinistra”, che in genere mostrano la repulsione sociale di chi ha schifo per tutto e tutti… Ma non guardiamo solo quello. Si guarda come uno imposta i margini del foglio. Sono dettagli che “scappano”, nel senso che chi ha una certa tendenza alla fine la usa…».

Resta il computer…
«Chi scrive anche lì ha l’“impronta digitale linguistica”, un modo unico di scrivere, usare aggettivi, punteggiatura, avverbi… Valutando tutti i parametri, si trova l’impronta anche nelle anonime».

Ho letto di una sua lectio sugli scarabocchi: non mi dica che anche gli scarabocchi di un bambino…
«Certo. Lo scarabocchio è scrittura, a tutti gli effetti. Ed è una scrittura inconsapevole rispetto a tutti i meccanismi della vita. Quindi per un grafologo è il massimo perché c’è tutta la spontaneità del mondo».

Esempio?
«Mi viene in mente il caso, orribile, di Fortuna “Chicca” Loffredo, la bambina di Caivano gettata dall’ottavo piano. Dovevamo capire quando erano cominciati gli abusi. Sulla scorta dei suoi disegni si riuscì a capire che erano iniziati dopo i tre anni. Quindi lì, al Parco Verde. Anni dopo il medico legale confermò… Dallo scarabocchio puoi capire tutto. Se è un bambino estroverso, “da palcoscenico”, se vuole essere al centro dell’attenzione… Quale dei quattro bordi preferisce… Se usa un calibro grande…».

Donald Trump usa perfino pennarelli mastodontici.
«Sì, ha quella grafia irta, a dente di squalo, come dicono i francesi. La grafia di chi lacera e vuole lacerare».

A farla corta, la grafia dice tutto…
«Dice il temperamento. L’impronta. Uno nasce lento o veloce, aggressivo o passivo. È proprio come la genetica. Ma poi c’è il comportamento. L’educazione. La crescita. L’autocorrezione. Madre Teresa di Calcutta, per esempio…»

Un caratteraccio?
«Una delle scritture grafologicamente più brutte che io abbia mai visto. Scrittura pesante, poca delicatezza, un sacco di angoli, resistenza al cambiamento… Eppure ne è uscita una santa. Per non dire del Mahatma Gandhi».

Un carisma formidabile.
«Una scrittura quasi anonima, banale. Quello era il suo Dna. Eppure, lavorando su se stesso, è diventato un gigante».

Quindi se da giovane lo avessero selezionato con una perizia grafologica…
«Guardi che sono sempre più diffuse. Aiutano. Anni fa usò la grafologia il sindaco di Milano Gabriele Albertini per scegliere gli assessori».

Funzionò?
«Dovrebbe chiederlo a lui».

Su Facebook si è tolta la curiosità di studiare la grafia e le firme di alcuni leader politici italiani?
«Alcuni».

Perché Salvini le ricorda la rana e il bue?
«Ha una scrittura che, ondulando, va gonfiandosi sopra e sotto, simile alle ampolle di un laboratorio, e che lo rende simile a quella rana che pensa che essere bue sia solo una questione di dimensioni e che per la fiducia nell’elasticità della propria pelle…».

L’altro Matteo, Renzi?
«Persona molto ambiziosa con una forte energia anche fisica. Dalla grafia è uno che vive in una costante sensazione di perder tempo in attività superflue».

Elly Schlein?
«La sua firma corre dritta come due binari paralleli tracciati con decisione, che scorrono sicuri in avanti ma senza mai curvare davvero verso l’altro, senza quelle anse che ti fanno deviare il percorso per fermarti a guardare chi hai accanto. Le lettere si agganciano come traversine regolari, funzionali, quasi tecniche: sostengono il treno dell’identità, lo tengono in carreggiata, ma non si trasformano mai in ponte sospeso, in arco, in abbraccio grafico…»

Giorgia Meloni?
«La scrittura appare piantata sul rigo: il corpo centrale è prevalente rispetto agli allunghi superiori, le parole sono compatte e la linea di base è piuttosto stabile, segni che rimandano a tenacia, resistenza alle pressioni e ostinazione nel difendere ciò che è stato deciso, con una marcata difficoltà a recedere o a rivedere le proprie convinzioni. Il tratto finale ascendente della firma e della dedica introduce una spinta verso l’alto ma è più un colpo d’orgoglio che uno slancio ideale… Manca, in altre parole, quella fuga in avanti del gesto grafico che è tipica delle nature che vivono di utopia, di sogni, di pensieri… Nel complesso è una grafia “con i piedi per terra”».

17 dicembre 2025