di
Federica Gabrieli

Cinque anni fa moriva a Padova una delle figure più oscure della cronaca nera. Diceva: «Andrò all’inferno, ma prego Dio di poter passare dalle mie vittime e chiedere loro scusa». Il racconto del suo confessore, don Marco Pozza

«Alla mia morte voglio essere buttato nell’immondizia». Così, anni prima di spegnersi, Donato Bilancia – l’uomo che l’Italia ricorda come il serial killer più efferato del Novecento – immaginava la sua fine. E invece alla sua morte, avvenuta il 17 dicembre 2020, accadde tutt’altro: pochi giorni dopo nella Chiesa di San Bartolomeo in Montà di Padova, ad accogliere la sua bara c’erano diciassette sedie vuote. Su ognuna un nome, una gerbera, una vita spezzata. A celebrare c’era don Marco Pozza, cappellano del carcere Due Palazzi, che per dieci anni gli è stato accanto e che oggi nel quinto anniversario della morte, riapre il dossier umano di una delle figure più oscure della cronaca nera: « Il funerale lo avevano pensato insieme», afferma. Non l’immondizia invocata da Bilancia, ma una liturgia asciutta, centrata sulla Genesi: la domanda di Dio a Caino – «Dov’è tuo fratello?» – ripetuta diciassette volte, ciascuna col nome di una vittima. «Per la prima volta erano in diciotto: lui e loro».

Don Pozza: «La prima volta che l’ho visto ero terrorizzato»

Don Marco Pozza, racconta un percorso nascosto, controverso, indescrivibile nella sua complessità: «Dentro quella bara – dice – c’era mio fratello Caino. La mia anima di prete, però, mi suggerisce che è morto mentre viaggiava sulla rotta di Dio». Bilancia fu stroncato dal Covid, all’età di 69 anni. Arrestato nel maggio 1998 dopo 17 omicidi – 13 ergastoli, una scia di sangue che terrorizzò l’Italia. Il loro rapporto nasce nel 2011. A spingere Don Marco nella cella d’isolamento di Bilancia è una donna, Bianca Maria Vianello, pioniera del volontariato carcerario. «Se vuoi capire davvero il carcere, devi partire da lui», gli disse. «Quando l’ho incontrato la prima volta – racconta Don Pozza – mi sono fatto la pipì addosso dalla paura. Era restio, inselvatichito, feroce nello sguardo. Mi impauriva, mi respingeva. Urlava senza motivo». Poi qualcosa si incrinò. Accadde quando il sacerdote si ostinò a dargli del “lei”, e chiamarlo signor Donato, senza affondare subito nel passato omicida. «Perché nessuno, da vent’anni, lo chiamava più signore». Quel rispetto gratuito lo destabilizzò più delle botte prese in carcere – botte che non raccontava mai, ma che Don Marco vedeva al mattino dopo, sul volto gonfio.



















































«Andrò all’inferno, ma prego di poter chiedere scusa alle vittime»

Per il giovane prete, che negli anni Novanta prendeva il treno per andare all’università con il terrore di essere una possibile vittima di quel killer, fu uno choc: «Negli anni della mattanza avevo paura dei passi nei corridoi ferroviari. Non potevo immaginare che un giorno l’avrei trovato dinanzi a me». La relazione cresce negli anni, senza scorciatoie: ascolto, silenzio, piccoli gesti che intaccarono la corazza dell’uomo «sepolto sotto il peso delle sue gesta», come lo definisce Pozza. «E gente che ha scommesso anni, offese, dedizione per recuperare un frammento di umanità. Ci è riuscita».
La memoria delle vittime – soprattutto una – popolavano le sue notti e non l’hanno mai abbandonato: «Mi diceva: “Andrò all’inferno, ma prego Dio che mi dia un istante per passare da loro a chiedere scusa”». Negli ultimi anni Bilancia entrava in chiesa e si sedeva in fondo: «Non voglio che mi vedano piangere». E ogni lunedì, dopo la Messa, confidava al prete: «Mi sembra che ogni domenica il Vangelo parli di me».

La pensione in beneficenza

Il punto di svolta arrivò nel 2018, nel sabato che apre la Domenica della Divina Misericordia. «Mi strattona e dice: “Voglio confessarmi. Non l’ho mai fatto, insegnami tu”». La confessione durò quasi quattro ore. «Lì ho visto la lotta tra bene e male dentro un uomo». Quando uscirono dal confessionale, don Pozza gli propose di pregare un’Ave Maria. Bilancia, a memoria, pronunciò uno a uno i nomi e cognomi delle sue vittime. «È uno dei gesti più sconvolgenti della mia vita», dice il cappellano.
Bilancia non si è mai perdonato. «Ma diceva: “Il perdono più difficile è quello verso me stesso”». Eppure, negli ultimi anni, provò a restituire qualcosa: «Non posso rimettere in vita chi ho ucciso, ma posso tenere accesa qualche vita». Nessuno doveva saperlo – fu una sua richiesta – ma grazie a lui oggi sopravvivono: una famiglia del Sud Italia e un bambino disabile del Nord, cui Bilancia aveva destinato la sua pensione. Raccontare questa storia senza ferire la memoria delle vittime è la sfida più delicata. «Nessuna giustificazione. Il male non è mai giustificabile», ribadisce il cappellano. «Ma nel carcere, quando il male incontra il bene, qualcosa si sgretola. Donato Bilancia è stato la sfida delle sfide: il simbolo del male assoluto che, negli ultimi anni, ha scoperto il potere della misericordia».


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17 dicembre 2025 ( modifica il 17 dicembre 2025 | 14:31)