Damiano Michieletto, all’esordio nella regia cinematografica, gira un film che ha diverse assonanze col Gloria! di Margherita Vicario ma che è anche completamente diverso, a testimonianza della ricchezza della lingua del cinema. La recensione di Primavera di Federico Gironi.
Ma sì, certo, è il film gemello di Gloria!, questo Primavera. Lo è perché la storia, che in buona sostanza è una storia di emancipazione femminile, è la stessa, e si svolge negli stessi luoghi, gli orfanotrofi di Venezia e dintorni che formavano le loro ragazze come musiciste, e perché siamo negli stessi anni, all’inizio del Settecento, e perché la musica è grande protagonista.
E però Primavera è un gemello diverso, diversissimo, e non solo perché alla base del suo racconto c’è, con una giusta dose di libertà interpretativa, lo “Stabat Mater” di Tiziano Scarpa, che permette di approfondire psiche, motivazioni e pulsioni della sua protagonista. Non solo perché qui, come nel romanzo di Scarpa, c’è Antonio Vivaldi, e non il maestro di Paolo Rossi in crisi creativa. Soprattutto, direi, perché se Margherita Vicario inseguiva il pop in maniera inconoclasta, il musical, e gli anacronismi di Sofia Coppola, e tutto per raccontare la gioia della sovversione e della liberazione, i toni voluti da Damiano Michieletto sono molto diversi. Ma non per questo meno efficaci.
Non ce n’è di pop, in Primavera, che è invece un film solidamente e felicemente classico, per quanto chiaramente moderno e contemporaneo. Non c’è gioia se non quella che la musica lascia intravedere, sembra promettere, ma è tutta conquistare. Ci sono la fatica e la sofferenza, quelle che passano da una Venezia niente affatto cartolinesca e fredda e (già) decadente a dispetto della gloria (scusate) politica, quelle che costellano la vita quotidiana della Cecilia di Tecla Insolia (brava) e delle sue compagne, e che si ritrovano nella malattia che mina le possibilità e lo spirito del Vivaldi di Michele Riondino. C’è, a questo proposito, la delusione generata da un personaggio, Vivaldi appunto, che illude la povera Cecilia circa il suo futuro e le sue possibilità ma che poi, per ignavia e per vanità (e forse perfino per indole maschile) non mantiene alcuna delle sue promesse.
Primavera è un film dove tutto è “una questione di soldi, di musica e di morte”, e dove tutto passa sopra ai corpi e alle vite delle donne (e alle donne, e mica ai personaggi maschili come quello di Elio, è delegata anche l’onere dell’aiuto e della comprensione, si veda il personaggio assai bello di Fabrizia Sacchi).

Michieletto viene dal mondo della lirica, e ha ben chiaro quindi il peso e il ruolo drammaturgico che la musica può avere, e che usa in questo film in una maniera esaltante e commovente senza però abusarne, senza inseguire la traduzione dell’opera al cinema. Perché, è evidente da quello che mette sullo schermo e da come lo mette, aiutato dalla straordinaria fotografia di Daria d’Antonio, Michieletto il cinema non l’avrà mai fatto prima ma lo conosce, lo ama, e ne ha compreso istintivamente una regola fondamentale: quella che riguarda l’immagine (e di immagini notevoli ce ne sono, in Primavera) e ancor di più l’immagine in movimento. E Primavera è un film che procede senza spreco di inutili parole e attraverso molto movimento. Procede attraverso i gesti, le espressioni, i silenzi, gli spostamenti e gli avvicinamenti, oltre che ovviamente attraverso la musica (bellissima, inutile dirlo). E non suoni questo come una diminutio della sceneggiatura di Ludovica Rampoldi: tutto il contrario, anzi.

Ci sono, in Primavera, un’energia vitale compressa e commovente, un’irrequietudine soffusa che non viene mai sconfitta dallo scoramento, nemmeno quando l’odioso nobile di Stefano Accorsi spezza, letteralmente, i sogni della povera Cecilia, un calore riconoscibile e percepibile anche sotto il gelo del clima, delle mura, di una condizione che è solo un gradino sopra quella della pura e semplice prigionia.
Se pure è classico, il film di Michieletto, lo è nella stessa accezione di una musica che significa cultura, universalità e eternità. Se vi piace, come è piaciuto a me, non è che state diventando vecchi: state diventando, finalmente, maturi.