La bolla informativa sulle trattative per la pace in Ucraina accredita ipotesi di accordo inesistenti e dissimula, invece, sotto mentite spoglie negoziali, la vera e propria strategia di demolizione americana delle resistenze ucraine e il contrasto che alcuni Paesi europei volenterosi stanno opponendo a questo disegno.

L’unico negoziato che davvero conta per l’Ucraina, in questi giorni, non è quello sui sacrifici territoriali, sulle garanzie di sicurezza per il futuro o sui costi per la ricostruzione – che sono le chiacchiere di cui sia gli aggressori che i difensori dell’Ucraina rivestono il proprio non dichiarato obiettivo politico – ma è quello interno all’Unione europea sulla ripartizione dei costi necessari a impedire che l’Ucraina sia presa per fame.

Donald Trump ha smesso da tempo di dare soldi e lesina armi (pagate da altri) e supporto di intelligence all’Ucraina, e prova con ogni mezzo a impedire che i Paesi europei continuino a compensare, ancorché in misura insufficiente, il disimpegno americano e tengano in piedi lo Stato e le forze armate ucraine, non costringendole alla capitolazione.

L’ultimo report del Kiel Institute mostra come il sostegno europeo, pur essendo nell’ultimo anno cresciuto in quasi tutti i Paesi (quasi perché in Italia, guarda caso, nel 2025 si è ulteriormente ridotto, da inconsistente che era), sia ben lontano dall’assicurare un contributo stabile al bilancio ucraino di circa settanta miliardi di euro all’anno per i prossimi due anni, il minimo per garantirne l’equilibrio.

Eppure, questo contributo è tutt’altro che insostenibile per gli Stati europei (compresi Regno Unito e Norvegia) e il prezzo della libertà ucraina – pari allo 0,3 per cento del Pil complessivo – non è affatto esoso, considerando quello che l’economia europea potrebbe pagare diventando una terra di ventura delle scorribande russo-americane.

Anche la tenzone rispetto all’utilizzo degli asset sovrani russi, immobilizzati presso intermediari europei, non ha niente a che fare con una disputa su questioni diritto, ma con lo sbarramento all’uso di qualunque risorsa possa garantire al governo di Kyjiv di non dovere alzare bandiera bianca, per assenza di alternative.

Mai così accanitamente si è parlato di problemi giuridici a proposito dell’Ucraina come per il destino delle riserve del Cremlino: non per la violazione del diritto internazionale e l’invasione di uno Stato indipendente, non per i crimini di guerra contro i civili, non per il rapimento di migliaia di bambini, ma per la tutela dei capitali di uno Stato terrorista. Il che conferma che quando i bravi di Vladimir Putin danno ordini, gli azzeccagarbugli di destra e di sinistra iniziano ad azzeccagarbugliare.

La scelta di utilizzare queste risorse non sarà ovviamente a costo zero, non perché un ufficiale giudiziario mandato da qualche corte moscovita potrebbe esigerne la restituzione, ma perché potrebbe rendere il mercato finanziario europeo meno affidabile per i capitali sovrani di altri stati canaglia e la fuga dei quattrini fa sempre male, che siano sporchi o puliti. Ma questo costo va giudicato in relazione ai costi di tutte le alternative, a partire da quella cosiddetta pacifista.

Peraltro, vedi la coincidenza, i più intransigenti difensori dell’intangibilità dei piccioli di Putin sono anche i più recalcitranti ad accettare soluzioni diverse o a impegnarsi su formule giuridicamente meno controverse. Semplicemente, non vogliono più dare ossigeno a Kyjiv, ma vogliono cooperare al disegno russo-americano, per amore, per interesse o per necessità.

L’ennesima discussione tenutasi ieri alla Camera e al Senato sugli indirizzi parlamentari in vista del prossimo Consiglio europeo ha ufficializzato che Meloni oggi andrà a Bruxelles non per offrire soluzioni a chi vuole affrontare i problemi, ma per fare problemi a chi cerca soluzioni per l’Ucraina. Ieri dopo avere ripetuto, sempre compuntamente scappellandosi dinanzi all’eroismo ucraino, che l’Italia per la sicurezza dell’Ucraina di domani non vuole mettere né un euro, né un uomo – l’estensione dell’articolo 5 del trattato Nato è un’idea italiana, ma dovrà essere una responsabilità di altri: noi ci fermiamo all’idea – la Presidente del Consiglio ha chiarito che per la sopravvivenza dell’Ucraina di oggi non può fare niente di più, ma semmai di meno, del pochissimo che ha fatto finora. All’uso degli asset russi l’Italia è contraria, alla garanzia di fondi nazionali non è favorevole. Nell’unica vera trattativa che conta per la vita e la libertà degli ucraini e per rendere possibile un negoziato che sia qualcosa di diverso da un sistema di racket – quella sul contributo al bilancio ucraino nel prossimo biennio – l’Italia sta contro l’Ucraina e contro chi vuole salvare l’Ucraina. Con il ghigno dello zuavo putiniano Matteo Salvini o con la posa addolorata di Giorgia Meloni, ma comunque contro l’Ucraina.