«Non ci ho capito niente, ma lo riguarderei anche subito» recitano diversi commenti degli utenti nelle pagine web dedicate a Deep Dark, uno dei film horror più assurdi e surreali mai realizzati. E non hanno tutti i torti: tra grottesco e body horror, questa pellicola del 2015 sembra quasi arrivare da un universo parallelo, raggiungendo vette così disturbanti e viscerali da rimanere con lo spettatore anche per molte ore dopo la visione. 

Diretto da Michael Medaglia, Deep Dark racconta la storia di Hermann (Sean MacGrath), uno scultore fallito che non riesce a trovare posto in nessuna galleria d’arte e per questo sta pensando di porre fine alla sua vita. Frustrato e disperato, decide di ricorrere all’aiuto di uno zio ricco, che lo ospita in un appartamento dove Hermann si chiude per due settimane allo scopo di creare il suo capolavoro. Lì trova uno strano buco nel muro che parla con una voce femminile e ha il potere di donargli l’ispirazione per trasformarlo in un artista di successo. Ma la loro relazione assume presto tinte sinistre, e i sogni più selvaggi dell’uomo rischiano di diventare i suoi peggiori incubi.

Dalla trama alle atmosfere, ogni elemento di Deep Dark è pensato per destabilizzare lo spettatore. La premessa stessa è già sufficientemente inquietante: il protagonista fa un patto con un buco in un muro, che promette di regalargli tutta l’ispirazione artistica di cui ha bisogno in cambio della sua attenzione e compagnia. Un vero e proprio contratto faustiano, grazie al quale Hermann comincia a produrre capolavoro dopo capolavoro, non rendendosi conto, però, che la sua anima è posseduta dalla creatura nel buco e che il loro rapporto si fa sempre più pervasivo, possessivo e morboso. 

Ma gli elementi surreali non sono fini a sé stessi: il regista li utilizza non soltanto per il loro effetto disturbante, ma anche per spingere lo spettatore a una riflessione sull’ipersessualizzazione dei corpi femminili nel mondo dell’arte. L’aspetto più interessante è che Medaglia riesce a farlo senza mai mostrare realmente il corpo femminile in questione: l’autore rappresenta una metafora sul rapporto tra artista e musa femminile, qui estremamente oggettificata, al punto da non comparire mai sullo schermo e a essere ridotta soltanto a un buco e una voce seducente. 

È proprio questo legame parassitario a colpire più di ogni altra cosa. Da una parte, il buco nel muro è il simbolo dell’arte che richiede sacrifici, nutrendosi del desiderio dell’artista di realizzare qualcosa di grande e di ottenere il successo. Dall’altra, però, anche Hermann sfrutta la sua “musa”, arrivando persino ad arrecarle violenza per estorcerle l’ispirazione di cui ha bisogno, abusando di lei pur di raggiungere i suoi avidi scopi.

Nonostante il messaggio attuale e importante, non c’è dubbio però che Deep Dark non sia una visione facile, sia per l’estremizzazione di grottesco e violenza, sia per l’oscurità di metafore e significati. Per questo, sui principali aggregatori di recensioni gli spettatori sono letteralmente spaccati in due: c’è chi lo considera geniale proprio in virtù della sua stranezza, e chi invece intima di tenersene alla larga, sostenendo di averlo odiato, di aver sprecato 80 minuti della propria esistenza e definendolo «senza senso», «eccessivo» e «non abbastanza spaventoso» per essere un horror. Quel che è certo, tuttavia, è che non vi uscirà più dalla testa: se non altro, perché si tratta di una delle esperienze cinematografiche più allucinanti mai concepite.

Fonte: Collider

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