di
Guido Santevecchi
Emerge il video del processo al generale Xu Qinxian che nel 1989 rispose negativamente all’ordine del Partito comunista: «Questo comando non reggerà alla prova della Storia». Non si sa chi abbia diffuso il filmato, ma Pechino ha rimosso il direttore dell’Ufficio sul segreto di Stato e il suo vice
La violazione dei diritti umani e civili in Cina non è più all’ordine del giorno. Ma dall’armadio degli scheletri del Partito comunista è uscito ora il resoconto drammatico del processo subito dal generale che rifiutò di guidare i suoi soldati in Piazza Tienanmen nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 per schiacciare la protesta degli studenti.
Quell’ufficiale si chiamava Xu Qinxian, aveva 54 anni e comandava il 38° Corpo d’armata, unità prestigiosa alla quale il Politburo aveva ordinato di entrare a Pechino con i suoi 15 mila uomini e 400 carri armati per mettere fine alla sfida dei manifestanti.

Al suo caso di «insubordinazione» il regime allora guidato dal saggio Deng Xiaoping non volle dare pubblicità, per non rivelare le divisioni interne in quella scelta sciagurata. Il generale Xu fu portato davanti alla Corte marziale nel marzo del 1990, nove mesi dopo il massacro al quale si era opposto, e condannato in un processo segreto. Fu rimosso dalla storia ufficiale di quei giorni e anche quando morì, nel 2021 a 85 anni, la censura di Pechino cancellò dal web mandarino ogni messaggio che ricordava la sua scelta coraggiosa.
Ora qualcuno ha lanciato sul web il filmato integrale del processo: sei ore di requisitoria da parte dei giudici militari e di risposte calme e ferme da parte dell’imputato. Le immagini sono raggelanti nella loro essenzialità: il generale Xu, in una semplice giacca grigia da detenuto, siede nel recinto degli accusati, attorniato da quattro soldati.
Non ci sono spettatori in aula.
I giudici militari gli chiedono conto del suo rifiuto di obbedienza al Partito. L’imputato risponde: «Quando mi fu comunicato l’ordine, spiegai al commissario politico che in caso di scontro con la folla non sarebbe stato possibile distinguere tra buoni e cattivi. Osservai che un comandante che avesse eseguito l’ordine di portare le truppe a Tienanmen avrebbe potuto diventare un eroe forse, ma che se la situazione fosse stata gestita male, quel comandante sarebbe diventato un peccatore e un criminale davanti alla storia».
Dalle dichiarazioni davanti al tribunale militare emerge che l’ordine di mandare l’esercito contro gli studenti ed eseguire la legge marziale (disperdere la folla a costo di sparare sui giovani manifestanti) era stato dato verbalmente e singolarmente a diversi generali nei giorni intorno al 18 maggio.
Xu Qinxian, ricevutolo, aveva convocato i suoi ufficiali e aveva detto loro che lui non avrebbe guidato il 38° Corpo d’armata a Tienanmen, per motivi di coscienza personali e per giudizio professionale. «Dissi che l’uso della forza militare era una questione da discutere di fronte al Congresso Nazionale del Popolo, non poteva essere decisa solo in nome del Partito ma dello Stato, per poter resistere al giudizio della storia».
Xu Qinxian non voleva essere ricordato come un «peccatore e un criminale». Ai giudici disse di aver agito solo personalmente, non a nome del suo 38° Corpo d’armata. «A chi mi aveva dato quell’ordine risposi che i superiori potevano nominarmi al comando e anche rimuovermi, ma che non avrei preso parte a quell’azione».
Una condotta «intollerabile» decise in quelle ore tragiche la Commissione militare centrale che impedì a Xu di avere ulteriori contatti con i suoi ufficiali.
Altri generali eseguirono l’ordine, il 38° Corpo entrò a Pechino assieme al altre unità, in tutto 50 mila soldati.
La notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 furono uccisi migliaia di giovani, caddero anche dei soldati ignari dei motivi dello scontro: non sapevano che i manifestanti di Tienanmen non erano «controrivoluzionari», ma avevano chiesto solo un governo più decente e aperto.
La pena per Xu fu l’espulsione dall’Esercito e 5 anni di prigione. Una condanna relativamente mite, probabilmente decisa per non turbare ulteriormente la coscienza (cattiva) dell’Esercito popolare di liberazione che aveva sparato sul popolo.
La sorte dell’ex generale rimase segreta in Cina. Solo nel 2011 un giornale di Hong Kong, dove allora la stampa era ancora libera, lo rintracciò. L’ufficiale disse di non avere mai avuto rimpianti sulla sua decisione di rifiutare l’ordine di sgomberare la piazza. Il quotidiano che pubblicò la sua frase era «Apple Daily», il cui editore era Jimmy Lai, che questa settimana è stato condannato per aver partecipato alla difesa della «quasi-democrazia» di Hong Kong.
Il video del processo del 1990 è stato pubblicato a fine novembre su X e su YouTube (qui il link) che sono oscurati sul territorio della Repubblica popolare cinese. Lo ha rilanciato Wu Renhua, uno storico della Tienanmen che partecipò all’occupazione della piazza e poi si è rifugiato negli Stati Uniti. Wu non ha rivelato la fonte del filmato, ha detto che la fuga di notizie «è completamente scollegata dalle lotte di potere all’interno del Partito comunista e delle forze armate».
Il giorno dopo però, Pechino ha annunciato la rimozione del direttore dell’Ufficio sul segreto di Stato e del suo vice.
18 dicembre 2025
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