di Cristiana Allievi
L’attore neozelandese interpreta il luogotenente suicida di Hitler in Nuremberg. «Ero riluttante pure a leggere il copione. Ma la sceneggiatura era bellissima… Poi ho studiato la sua vita, sono appassionato di storia. Era uno che pensava di poter controllare ogni cosa»
«Voglio arrivare fino alla tua gola e strapparti il cuore, emotivamente. E quando ci riesco, passo oltre, cerco altro».
Lo dice Russell Crowe con la sua voce da rocker, e fa capire di non essere uno che si accontenta di fare bene le cose: vuole colpire chi lo guarda nel profondo, creare un’esperienza fisica che azzera le distanze.
Lo incontriamo a Zurigo, dove ha ricevuto il Golden Eye Award alla carriera dopo la proiezione di Nuremberg, di James Vanderbilt. La folla si è scatenata, tutti volevano un autografo, un sorriso, una stretta di mano con il gladiatore. E lui non si è risparmiato, tanto che i suoi incontri ufficiali sono cominciati con oltre un’ora di ritardo. Del resto, la sua performance è di quelle che non si dimenticano facilmente, sin dalla prima inquadratura: il corpo possente, i capelli corti sui lati, la divisa azzurro polvere con i bottoni d’oro che tirano. Poi quegli occhi azzurri, attraversati da una sottile “pazzia” — quella giusta per raccontare il narcisismo patologico del criminale di guerra Hermann Göring, secondo al comando del regime nazista.
Siamo nel 1945: Hitler è morto, e insieme ad altri 21 membri dell’alto comando nazista Göring viene portato in prigione a Norimberga per il primo processo della storia ai criminali di guerra. Nel film, che vedremo al cinema dal 18 dicembre (con Eagle Pictures), l’attore australiano è affiancato da Rami Malek e Michael Shannon, rispettivamente lo psichiatra incaricato della sua perizia e il procuratore capo del processo.
In Nuremberg interpreta il più alto in grado tra i nazisti sopravvissuti, un ruolo che ha accettato subito o con esitazioni?
«Sono stato riluttante persino a leggere il copione. Nel mio mestiere spesso si accetta un lavoro quasi per principio. Faccio un piccolo esempio e torno sul film».
Prego.
«Il pubblico parla in termini entusiastici di Il gladiatore, ma per Ridley Scott e me quella è stata una delle più grandi schivate di proiettile della storia del cinema. Ci siedevamo nel suo ufficio, notte dopo notte, urlando contro la sceneggiatura: “è una schifezza”, “è spazzatura”, “è una cavolata…”, su 110 pagine eravamo d’accordo su 21. C’erano il budget, il cast, c’era tutto, ma mancava la sceneggiatura».
Questo film è tratto dal libro The Nazi and the Psychiatrist, di Jack El-Hai: è andata diversamente?
«Aveva una sceneggiatura bellissima. Ma ho firmato un contratto nel 2019, hanno perso tutti i finanziamenti per ben tre volte, e abbiamo dovuto aspettare cinque anni, da aggiungere ai sette che il regista aveva già impiegato per arrivare al punto in cui era arrivato».
Come ha vissuto l’attesa?
«Avevo preso la decisione mentre stavo terminando la serie TV su Roger Ailes, The Loudest Voice, Sesso e potere. Ho dovuto restare in quello stato d’animo, resistere».
Perché il regista ha scelto lei?
«Ero il migliore che potesse permettersi nella fascia di prezzo in cui mi trovavo io».
Come si è rapportato alla figura di Göring e al ruolo che ebbe nel nazismo?
«Sono appassionato di storia quindi ho un livello di conoscenza pericoloso su molte cose. Nel senso che non conosco gli argomenti a fondo, ma ogni tanto capita l’occasione di qualcosa che mi appassioni. Per me cercare qualcosa, cominciare a scavare, a esplorare, e a farsi un’idea, è come vedere la luce, non mi pesa affatto».
Quello che racconta il film è un periodo storico ben documentato.
«Infatti ho ricostruito bene la vita di Göring, ho scoperto che era uno studente terribile e come punizione i suoi genitori decisero di mandarlo in accademia militare».
Lui ne fu entusiasta.
«Divenne il primo della classe e, finita l’accademia, entrò nell’esercito. Venne ferito e capì di voler fare il pilota. Alla fine della Prima guerra mondiale era al comando della squadriglia di Manfred von Richthofen, era un asso dell’aviazione».
Un’altra versione di gladiatore.
«Negli anni Venti era sui pacchetti delle sigarette e sui cartelloni, era come un eroe. Da quella posizione si chiede chi può portarlo più lontano. Un giorno vede Hitler parlare in un caffè e pensa: “Questo è abbastanza folle da fare ciò che dice, io sto con lui”».
Cosa l’ha colpita di più dell’uomo?
«Il fatto che abbia sempre creduto di poter controllare completamente la narrazione. Ho trovato sezioni della versione tedesca di quello che il Parlamento britannico chiama Hansard, il resoconto ufficiale dei dibattiti. Ho letto cose che non aveva pianificato di dire: qualcuno lo irritava e lui esplodeva. Da lì ho colto un altro livello della sua personalità: fascino, arguzia e la tendenza a voler seppellire chiunque gli si opponesse».
Finché non perde il controllo.
«Intorno al 1942 se fosse tornato a Roma, per così dire, sarebbe stato pugnalato sui gradini. Sceglie di rimanere ai margini, lontano dal centro del potere. E Goebbels, Himmler e Heydrich prendono il sopravvento».
Come è riuscito a renderlo magnetico senza farlo diventare troppo “simpatico”?
«La simpatia dipende da chi ti guarda, quindi non piacerai mai a tutti. Ho cercato di portare un po’ di verità, perché nessuno è del tutto buono o cattivo».
Il duello psicologico con lo psichiatra è sottile.
«Io e Rami Malek non ci conoscevamo, ci siamo incontrati la sera prima delle riprese. È stato coraggioso, si è buttato subito dentro una materia delicata».
Con Michael Shannon avevate già lavorato in L’uomo d’acciaio.
«Io interpretavo Jor-El, il padre di Superman, e lui Zod, prima amico poi nemico giurato. Abbiamo passato tre mesi in una palestra dell’Illinois, a preparare i combattimenti. Michael è uno dei più grandi attori americani di sempre».
Un momento memorabile sul set di Nuremberg?
«Con lui, in una scena lunga 17 pagine! Mi ha detto: “La produzione non ce lo permetterà, non è umanamente possibile filmarla in un giorno”. Ho detto al regista che io e lui siamo extraterrestri, e ci ha lasciati fare. Abbiamo girato undici scene in un giorno. A Budapest, con 600 persone, alla parola azione la sala è esplosa in un applauso. Lui cercava di mandarmi fuori gioco, io lui. Abbiamo fatto risparmiare alla produzione 2 giorni di riprese, centinaia di migliaia di dollari».
Un’arena…
«A Budapest, circondati da seicento persone, alla parola azione la sala è esplosa in un applauso. Lui cercava di mandarmi fuori gioco, io cercavo di mandare fuori gioco lui. Abbiamo fatto risparmiare alla produzione due giorni di riprese, ovvero centinaia di migliaia di dollari».
In molti danno per certa una sua candidatura agli Oscar. Essere di nuovo in corsa la emozionerebbe?
«La mia vita va davvero bene, ed è perché non mi importa più di certe cose. The Next Three Days di Paul Haggis, 11 anni dopo, è arrivato al numero uno su Netflix. Ho di nuovo un rapporto diretto con chi guarda i film, e questo mi rende felice. Ho la popolarità dei tempi di L. A. Confidential: mi fanno entrare nei locali, mi danno un bel tavolo, la gente mi rispetta, ma senza tutte le stronzate del caso».
Sono gli Oscar le… stronzate?
«Diciamo che preferisco non trovarmi più in quei frangenti. Sono già passato tra le follie della celebrità comporta».
Nominato all’Oscar per tre volte, c’è stato un momento in cui ha pensato di lasciare?
«Dal dicembre ho girato 5 film, e sul set del sesto mi sono chiesto dove avrei trovato l’energia… Per il maestro d’armi Ramirez, nel nuovo Highlander, il regista Stahelski ha accettato che lo interpretassi tipo comico scozzese da stand-up (Sean Connery fece il ruolo nell’86; ndr), ma non ero ancora convinto».
Gli altri cinque personaggi?
«In The Beast in Me sarò un ex allenatore malato, in Bear Country un riciclatore albanese. In Billion Dollar Spy uno scienziato russo che vende segreti agli Usa. E in Unabom il prof di Harvard dell’unabomber Ted Kaczynski, forse colui che ne influenzò la mente».
E poi c’è The Weight.
«Lì sono con Ethan Hawke. Ci si può chiedere perché accettare così tanti film di seguito. Ma firmi un contratto, poi cambiano i finanziamenti, le tempistiche… Film previsti per il 2022 si sono realizzati tutti nel 2025».
Vacanze, ne fa?
«Sto imparando a 61 anni cosa sia una maledetta vacanza. E in effetti è una bella cosa».
18 dicembre 2025
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