di
Guido Santevecchi
L’isola minacciata da Pechino riceverà lanciarazzi Himars, sistemi a medio raggio Atacms, cannoni semoventi, razzi anticarro Javelin, droni d’attacco. Trump sta giocando bene la carta della «ambiguità strategica»
Gli Stati Uniti annunciano la vendita a Taiwan di armi per oltre 11 miliardi di dollari: il pacchetto di forniture militari più consistente nella storia recente. D’altra parte il nuovo «disordine mondiale» ha portato l’isola democratica in una situazione di pericolo imminente.
In base al programma, la difesa taiwanese riceverà 82 lanciarazzi ad alta mobilità del tipo Himars e 420 sistemi missilistici a medio raggio Atacms (300 km di portata), del tipo di quelli che durante l’amministrazione Biden hanno aiutato gli ucraini a fermare l’avanzata russa. Questa parte della fornitura vale 4 miliardi di dollari. Altri 4 miliardi valgono 60 cannoni semoventi con munizionamento e missili anti-carro Javelin. E arriveranno anche droni d’attacco per un miliardo di dollari.
Il Dipartimento di Stato di Washington spiega che la vendita di questo arsenale «servirà gli interessi nazionali, economici e di sicurezza dell’America, sostenendo lo sforzo del destinatario di modernizzare le sue forze armate e di mantenere una capacità militare credibile che conserverà la stabilità politica e il progresso economico nella regione».
La dichiarazione di Washington non cita chi minaccia la stabilità con la sua pretesa di «riunificazione» per via politica o militare. Ma è chiarissimo che il messaggio è per Pechino. E infatti il Ministero degli Esteri cinese ha subito reagito affermando che la mega-fornitura di armi «violerebbe gli accordi diplomatici tra Stati Uniti e Cina; danneggerebbe in modo grave la sovranità cinese e la sua integrità territoriale; minerebbe la stabilità regionale».
Il comunicato dello State Department è arrivato mentre Donald Trump parlava in tv alla nazione insistendo che la situazione dell’economia americana è di gran lunga migliore di quanto non credano i cittadini (nel 2026 si terranno le elezioni di midterm e il presidente è già in campagna). Nel suo discorso Trump non ha fatto alcun riferimento al confronto con la Cina né alla questione taiwanese. Ma naturalmente la vendita multimiliardaria di armi a Taipei fa parte della sua politica e al di là della sua importanza militare ha un notevole rilievo dal punto di vista politico.
Tra Trump e Xi Jinping è in corso uno spregiudicato gioco di potere. La Casa Bianca ha dovuto inseguire una tregua commerciale dopo aver cercato di piegare l’avversario strategico con i dazi. Pechino le ha tenuto testa utilizzando l’arma delle terre rare e secondo i politologi ha vinto la mano di poker con il suo rilancio. Dopo tormentate trattative è stato concordato, oltre al cessate il fuoco commerciale di un anno, che il presidente americano andrà in visita nella Città proibita ad aprile 2026. Sono anche previsti altri tre incontri al vertice l’anno prossimo, il primo quando Xi restituirà la visita di Stato andando a Washington e poi ancora in Cina per la riunione Apec e in America per il G20.
Questa serie di incontri ravvicinati tra i leader ha resuscitato la formula del G2, un accordo globale sulla spartizione delle zone di influenza tra le due Grandi superpotenze (è stato proprio Trump ad evocare l’ipotesi di un G2 Usa-Cina quando ha incontrato Xi in Sud Corea lo scorso ottobre).
Ma naturalmente, oltre al confronto strategico, alla fragilità del cessate il fuoco commerciale, sulla possibilità di un’intesa o almeno di una distensione duratura pesa la questione taiwanese.
Xi sta cercando di convincere Trump a dichiarare che gli Stati Uniti «si oppongono» all’indipendenza dell’isola. La linea americana è di «non sostegno a una dichiarazione d’indipendenza e mantenimento dello status quo» (che significa sovranità di fatto per Taipei). Da mesi Trump tace su Taiwan. Si è limitato a dire che Xi gli assicurato che non lancerà un’azione militare «fino a quando io sarò alla Casa Bianca, perché comprende le conseguenze»).
A novembre nella questione è intervenuta la premier giapponese Sanae Takaichi, affermando che Tokyo considererebbe un attacco cinese a Taiwan «una minaccia esistenziale» alla propria sicurezza. Pechino ha risposto con furia. Trump ha subito parlato con Xi: il presidente cinese ha ribadito che «il ritorno di Taiwan alla Cina è essenziale per l’ordine mondiale», la Casa Bianca non ha invece citato l’isola nel suo resoconto. Lo stesso giorno, Trump ha telefonato a Takaichi e secondo fonti di stampa avrebbe consigliato l’alleata giapponese a correggere la sua dichiarazione «interventista».
Che cosa ha in mente Trump per Taiwan? Dai silenzi e dai fatti (gli 11 miliardi di armi promessi a Taipei) riemerge la consolidata «ambiguità strategica» dell’America sulla questione dello Stretto: non spingersi fino a promettere l’uso della forza per difendere la democrazia taiwanese, per evitare la crisi irrimediabile con Pechino. Ma contemporaneamente armare l’isola per scoraggiare piani d’invasione. Ha funzionato per molti decenni, anche se ora la vicenda ucraina ha forse fatto venire nuove tentazioni a Xi e compagni del Politburo.
18 dicembre 2025 ( modifica il 18 dicembre 2025 | 16:43)
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