Dopo anni di dibattito, il Governo ha approvato – su proposta del Ministro Anna Maria Bernini – una riforma dell’accesso ai corsi di laurea in Medicina. Si tratta di un cambiamento rilevante, che va letto anche – o forse soprattutto – alla luce di dati concreti e delle difficoltà strutturali che il nostro Servizio sanitario nazionale sta attraversando. È un provvedimento che risponde a una necessità reale, ma che – per produrre risultati efficaci e duraturi – dovrà essere accompagnato da ulteriori e coraggiose scelte politiche e finanziarie, ispirate a una visione di lungo periodo. Come lo spirito della riforma e di chi l’ha fortemente voluta sembra prevedere.

Il superamento del cosiddetto “numero chiuso” non è, in sé, una novità improvvisa. Da tempo, molti esperti, operatori del settore e rappresentanti delle istituzioni sanitarie avevano evidenziato i limiti di un sistema che selezionava con modalità standardizzate, poco aderenti alla realtà della formazione e della professione medica. In alcuni casi, i test risultavano così astrusi da suscitare ironie e perplessità, più vicini al nozionismo da quiz televisivo che alla valutazione delle attitudini e competenze realmente necessarie per diventare medico.

Il vecchio meccanismo, oltretutto, rischiava di escludere migliaia di studenti motivati, costringendoli a cercare altrove – anche all’estero – ciò che l’Italia non offriva più: un percorso formativo accessibile, fondato sulla reale vocazione, sulla preparazione e sul merito. In questo senso, la riforma rappresenta una svolta: non abolisce la selezione, ma la colloca dentro un contesto più equo e trasparente, in grado di valorizzare chi è davvero idoneo a intraprendere il percorso medico.

La pandemia ha reso ancora più visibile e intollerabile ciò che già si sapeva: la carenza di personale medico e infermieristico è un nodo strutturale che va superato. Secondo la Corte dei Conti, nel 2024 mancavano in Italia oltre 30.000 medici e 65.000 infermieri. Una delle situazioni più critiche riguarda i medici di medicina generale: secondo il III Rapporto FNOMCeO-Censis, nel 2023 erano 37.983, con una riduzione di oltre 9.000 unità rispetto a vent’anni fa. Particolarmente drammatica è anche la condizione dei Pronto Soccorso: mancano più di 4.000 medici, con tassi di scopertura che in molte strutture superano il 30%, aggravando lo stress del personale in servizio e aumentando il rischio di inappropriatezze e ritardi nelle cure. Questi dati non riguardano solo gli ospedali, ma hanno un impatto diretto sull’emergenza-urgenza, sui servizi territoriali, sulle aree interne e sulla medicina di prossimità. Di fronte a questo scenario, l’apertura di un nuovo modello di accesso appare razionale e necessaria.

Ma da sola non basta. Il nuovo sistema, che prevede un semestre orientativo e selettivo al posto del test preventivo, potrà funzionare solo se accompagnato da una strategia coerente: servono investimenti strutturali nella formazione – con più docenti, tutor, aule e laboratori –; una programmazione nazionale rigorosa, in grado di calibrare l’accesso al fabbisogno reale del SSN; e una valorizzazione concreta del personale sanitario, affinché la professione torni ad essere attrattiva anche per i nostri giovani laureati, oggi spesso costretti a cercare all’estero migliori condizioni di lavoro e di vita.

In particolare, la programmazione degli accessi non può esaurirsi in un’operazione una tantum, ma va assunta come scelta strutturale e permanente, capace di adattarsi dinamicamente alle transizioni demografiche, epidemiologiche e sociali. È indispensabile che questo processo sia accompagnato da un monitoraggio costante e condiviso, in raccordo con le Università, gli Ordini dei Medici e le Società Scientifiche.

Per questo propongo l’istituzione, presso il Ministero dell’Università, di un Osservatorio nazionale permanente sull’accesso ai corsi di area sanitaria, in grado di supportare – con dati aggiornati e analisi indipendenti – le decisioni strategiche sul fabbisogno formativo.
L’Osservatorio dovrebbe garantire un monitoraggio in tempo reale delle transizioni demografiche ed epidemiologiche, ma anche dell’evoluzione dei bisogni sociali e dell’innovazione tecnologica, che già oggi incidono sulle modalità di erogazione delle cure e sulla definizione dei profili professionali.
Solo attraverso una programmazione stabile, partecipata e fondata sull’evidenza sarà possibile rendere efficace e duratura questa riforma, trasformandola in una leva per il rafforzamento del nostro SSN.

Il Presidente Mattarella ha più volte sottolineato come la salute sia un bene comune e come il rafforzamento del personale rappresenti una priorità nazionale. In questo spirito, da medico e civil servant, vedo in questo cambiamento un’opportunità da consolidare e rafforzare.
Il Paese ha bisogno di medici preparati, motivati e radicati nel proprio territorio. Per costruire questo futuro, servono oggi visione, coraggio e responsabilità.

L’autore è Professore straordinario di economia sanitaria e organizzazione aziendale



















































23 luglio 2025