di
Natalia Distefano
Il compositore romano, autore della colonna sonora di «Lo chiamavano Trinità» e altre indimenticabili musiche per il cinema e la tv, ha pubblicato il singolo «Le ragazze degli anni ‘60» per rimettere al centro «le belle melodie»
Nel 1970 due giovanissimi e semisconosciuti Bud Spencer e Terence Hill – al secolo Carlo Pedersoli e Mario Girotti – con Lo chiamavano Trinità… hanno scritto una pagina memorabile del cinema di genere in Italia, attraversando in speroni e cappello da cowboy le «lande desolate» del «far west» laziale (col set allestito sull’altopiano di Camposecco, ai confini con l’Abruzzo), spalancando le porte di improbabili «saloon» sulla Pontina e ingaggiando scazzottate epiche, tra cofane di fagioli, in una «posada» ricreata alla periferia di Roma (dentro una cava di tufo a Valle Galeria, verso Fiumicino). Ma senza la musica di Franco Micalizzi, compositore e direttore d’orchestra autore di decine di colonne sonore per il cinema e la tv tra gli anni ‘70 e ‘80, le immagini di quel film probabilmente non avrebbero fatto lo stesso effetto. «Addirittura Terence Hill, in un messaggio bellissimo, mi confessò che secondo lui almeno il 50% del successo del film era merito delle mie musiche» racconta Micalizzi, romano doc ribattezzato in tutto il mondo «Mister Trinity»: amato dai rapper per il sound energico delle colonne sonore di «poliziotteschi» come «Roma a mano armata»; corteggiato da Quentin Tarantino, che ha voluto le sue musiche in «Django Unchained» e «Grindhouse»; ma anche idolo di generazioni di bambini per la sigla del cartone animato «Lupin». Quattro settimane fa, a 86 anni, ha pubblicato il singolo «Le ragazze degli anni ‘60», interpretato da Angelo Trane con il testo di Carla Vistarini.
La pensione, dunque, non è nei suoi piani?
«Assolutamente no! La musica accompagna ogni giorno della mia vita. È una passione irresistibile: per me è impensabile smettere di comporre, suonare e ascoltare la musica. Questo nuovo singolo è solo il primo di un album che è in cantiere con almeno una decina di brani, sempre in collaborazione con Trane che è un crooner d’altri tempi: la sua voce è potente ma avvolgente, perfetta per interpretare melodie che rendono giustizia alla migliore tradizione musicale italiana, oggi praticamente dimenticata. Anzi peggio: calpestata da cantanti e case discografiche più interessate allo show che alla sostanza».
Non le piace quel che passa alla radio oggi?
«Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, il talento esiste ancora in Italia, peccato che non venga valorizzato. Perché c’è un mercato drogato dai download, fatto di canzoni prodotte quasi esclusivamente per un pubblico dai 12 ai 25 anni, costruite con lo stampino con testi che raccontano poco o nulla. Basta guardare Sanremo: hanno appena presentato gli artisti in gara, dove la quota di veri “big” è esigua. Credo ci sia la precisa volontà della direzione artistica di non dare spazio a certa musica considerata “per vecchi”. Invece una buona melodia è qualcosa di universale e senza tempo».
Come quella, ormai leggendaria, fischiettata in «Trinità»?
«Pensi che è stato il mio debutto al cinema. E posso dire di essermelo quasi auto commissionato quel lavoro. Avevo un amico alla Rca, nella storica sede in via Tiburtina, dove ho lavorato: era il produttore Italo Zingarelli. Io morivo dalla voglia di comporre per il grande schermo così fui esplicito e gli chiesi di affidarmi la colonna sonora di un “filmetto” di cui si iniziava a parlare ma che nessuno voleva fare. Uno di quelli prodotti con pochi soldi, così anche se non riempivano le sale il guadagno era assicurato: si usavano i set di film già girati, i saloon costruiti per i “più nobili” Spaghetti Western. Mentre Trinità era una sorta di kolossal-parodia, in cui si sdrammatizzavano i toni dei capolavori di Sergio Leone e al posto delle inquadrature lente c’erano le scazzottate. Al posto di crudeltà e violenza le battute comiche e le pentole di fagioli».
Allora il suo fischio è un omaggio a «Per un pugno di dollari» di Ennio Morricone?
«Ennio è stato un maestro e un amico allo stesso tempo. Sono stato a lungo il suo assistente musicale in sala di registrazione. Ma non abbiamo mai parlato tra noi di Trinità, mentre ricordo che ci fu un episodio curioso all’indomani dell’uscita de L’ultima neve di primavera, per il quale avevo composto le musiche. Il brano fu subito un enorme successo e quando incontrai Morricone nei corridoi della Rca lui mi venne incontro a passo spedito e appena fu vicino mi diede un finto schiaffone. Poi senza dire una parola si girò e se ne andò via. Lì capii che se l’era presa, quasi che il mio successo fosse per lui una lesa maestà. Ma intanto i premi li vinceva lui».
E lei no?
«Sì, ne ho presi anche io. Ma diciamo che forse nella mia carriera un David di Donatello lo avrei potuto portare a casa. Credo di aver dato il mio onesto contributo al cinema italiano, ma evidentemente qualcuno non la pensa così. O magari è perché sono un artista fuori dai “giri giusti”. Di sicuro non sono un ruffiano. Comunque a questo punto non mi aspetto neanche un David alla Carriera. O meglio, se arriva lo rifiuto! Ho avuto tante altre soddisfazioni».
Beh Tarantino ha scelto «Trinità» per «Django Unchained», Oscar per il Montaggio sonoro.
«La lunga scena finale del film è stata montata tutta in sincrono con il mio brano. Davvero splendida! L’Oscar non è mio, certo, ma credo che la musica sia il sangue di un film: scorre sotto le immagini, lo tiene in vita, racconta la parte interiore delle storie che accadono sullo schermo, dà voce a ciò che la telecamera non può inquadrare. Le emozioni. Penso che perfino un grande film sia meno bello senza una buona colonna sonora».
Quando è nata la passione per il cinema?
«Da bambino passavo pomeriggi interi nel cinema vicino casa, al Quartiere Italia, che è ancora il mio quartiere. Uno dei pochi a Roma rimasto abbastanza integro, senza troppe costruzioni nuove, palazzoni o centri commerciali. La sala era il mio posto del cuore, perché era l’unico in cui potevo ascoltare la musica ad altissimo volume, sembrava quasi che esplodesse dentro di me. Lì ho capito che sarebbe stata il mio destino. A scuola ero bravo, ma ho avuto una insegnate e dei genitori che mi hanno sostenuto e fatto sentire sicuro di poter realizzare il mio sogno».
Così a 17 anni ha mollato tutto e ha iniziato a suonare nei club d’Italia e d’Europa.
«A 15 già facevo piccoli concertini jazz, avevo studiato pianoforte ma suonavo la chitarra alle Grotte del Piccione, in via della Vite, dove capitavano anche Mina e le star della Dolce Vita. Poi mi notò il pianista francese Robby Poitevin e da allora non mi sono più fermato».
Dal jazz al funky, fino a diventare il re della musica pulp con arrangiamenti orchestrali.
«Si ma senza mettere mai da parte il potere di una melodia. Perché la musica deve sempre arrivare al cuore. Oggi ci vorrebbero meno cantautori da strapazzo e più “cantacuori”, io quelli bravi come Trane li chiamo così».
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19 dicembre 2025 ( modifica il 19 dicembre 2025 | 07:39)
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