Antonio Vivaldi, in Primavera, non è un’icona. È un uomo normale, dice Michele Riondino. Un prete, un lavoratore della cultura, qualcuno che ambisce al riconoscimento e che, proprio per questo, conosce la frustrazione. Il film, al cinema dal 25 dicembre con 01 Distribution, diventa così anche un modo per guardare al presente. Al talento che non basta mai da solo. Al successo che oggi pretendiamo immediato. Alle donne, ancora, costrette a muoversi dentro confini più stretti.
Ambientato nella Venezia dell’Ospedale della Pietà, Primavera – diretto da Damiano Michieletto – mette in scena l’incontro tra Vivaldi e l’allieva orfana Cecilia (Tecla Insolia): un rapporto che mette in crisi l’ordine costituito, religioso e sociale, e apre una frattura silenziosa nel sistema. Decisamente non un territorio nuovo per Riondino. Nei ruoli che sceglie, nelle parole che misura, nelle posizioni che assume, ritorna da sempre la stessa idea: il cinema non vive in astratto, ma dentro un contesto preciso, fatto di rapporti di forza, condizioni politiche, responsabilità.
Come ha costruito il suo Vivaldi?
«Con il regista ci siamo fatti moltissime domande. Non volevamo riprodurre un’idea stereotipata di Vivaldi né il mito del musicista dannato. Ci interessava restituire l’immagine di un uomo estremamente “normale”. Era un prete, diceva messa, seguiva delle regole, ambiva al successo e al riconoscimento che pensava di meritare, e che in realtà non ha mai avuto davvero. Questa tensione tra disciplina, ambizione e frustrazione restituisce un personaggio molto umano, terreno: non un artista romantico, ma un uomo che vive dentro un sistema e dentro le sue contraddizioni».
Siamo nel Settecento, ma il film sembra parlare anche molto al presente. Che cosa ci racconta sul talento?
«Racconta innanzitutto che il talento, da solo, non basta. C’è sempre bisogno che qualcuno lo riconosca. È vero per Vivaldi, ed è vero per Cecilia. Nel film entrambi hanno un talento enorme, ma vivono dentro condizioni che non sempre permettono a quel talento di emergere. Nel caso di Cecilia, parliamo di una donna, quindi di qualcuno che, per definizione, aveva accesso limitato a quel mondo, al potere, alla possibilità di esprimersi. Nel caso di Vivaldi, parliamo di un uomo che ha il potere, l’età, la possibilità di creare, ma che comunque resta intrappolato in un sistema che lo usa e poi lo dimentica. Dietro tutto questo c’è una riflessione molto forte: il talento ha bisogno di condizioni, di contesti, di strutture che gli permettano di esistere».

Michele Riondino e Tecla Insolia in Primavera
Kimberley Ross