di Andrea Galli
Le Libie sono due. Se a Tripoli girano jeep di soldati e s’allestiscono posti di blocco, a Bengasi c’è un solo obiettivo: edificare. Le aziende aumentano e il generale Haftar, con i suoi quattro figli, ha un potere sconfinato
Fra questi vicoli di palazzi bianchi in stile coloniale, bassi, simmetrici, vicino al Mediterraneo, costruzioni nate sopra la stratificazione delle epoche, greca, romana, bizantina e ottomana, si sparavano addosso anche con la mascherina sulla bocca. La pandemia. In quel 2020 di Libia, la pandemia dentro la guerra civile e viceversa. Appena cinque anni fa: a ottobre si raggiungeva un primo accordo di pace. Adesso a Bengasi sorge un cantiere ogni cinquanta metri.
Grattacieli, ospedali compresi quelli specializzati nell’infanzia, ristoranti, centri commerciali, negozi di profumi, trucchi, tessuti e telefonini. Le immancabili caserme su spazi giganteschi. Gli studi di veterinari in quanto si diffonde una cultura rispettosa dei cani, finora randagi centrati dai proiettili di fucile come passatempo, e permane la moda dei leoni domestici. Talmente inflazionate, povere bestie, da esser ormai vendute a 400 euro a esemplare dai trafficanti per tenerle in giardino fin quando sopravvivono, in media due anni soltanto, mangiando cibo per gatti e a volte divorando i poveracci, servi delle famiglie ricche, adibiti alla cura e sorveglianza.
Su turni di 24 ore, non di rado, a quanto vediamo, in condizioni di insicurezza, nessuna imbragatura, niente guanti né caschi, lavorano carpentieri, fabbri, falegnami, muratori, elettricisti, operai tutti quanti — ma proprio tutti — immigrati, palestinesi e siriani, sudanesi ed egiziani, in una nazione che necessita di manodopera altrimenti va in stallo perché i libici, per loro ammissione, nemmeno se ne parla d’andare nei cantieri.
Vengono realizzate corsie aggiuntive ai lati delle strade d’asfalto bucato, percorse da un traffico monumentale (nel Nordafrica soltanto il Cairo supera Bengasi), e del resto nella Libia settimo Paese nella classifica dell’Opec, l’Organizzazione intergovernativa di esportatori di petrolio, la benzina è pressoché gratis.
Insomma, si scava, erige, allarga, potenzia, alza polvere; e in tutto questo vorticoso costruire, un dinamismo straniante in un luogo così rilassato per sua natura stessa, viene evocata una nuova Dubai ripensando alla città emiratina negli anni Ottanta rivoluzionata dallo sviluppo urbanistico. Un caso pressoché unico per la velocità esecutiva e i volumi di metri cubi.
A Dubai nel 1977 gli abitanti erano 200mila e nel Duemila un milione; da dicembre scorso la popolazione di Bengasi è cresciuta di 100mila unità sfiorando il milione come mai successo in passato. In meno d’un anno.
Compaiono complessi, distretti, quartieri sulle campagne di terra rossa, e ancora polvere che vola e s’insinua, stavolta insieme alla sabbia dal deserto.
Il Fondo per lo sviluppo e la ricostruzione della Libia, regista unico e assoluto d’ogni operazione fondiaria e immobiliare, dispone di un portafoglio (ufficiale) equivalente a 12 miliardi di euro per il triennio 2025-2027. Un miliardo è stato investito nella ristrutturazione dello stadio internazionale inaugurato il 5 ottobre dall’amichevole tra l’Inter di Milano e l’Atletico di Madrid: il Memorandum firmato nel 2017 tra Italia e Libia si rinnova in forma automatica ogni 3 anni, prevede reciproci obblighi, aiuti, favori (dunque anche usando il calcio, vorace passione locale), nell’ambito di una marcata realpolitik, e la realpolitik non si occupa di libertà e diritti impediti, omosessuali costretti a rimaner nascosti o scappare, il dissenso non tollerato, la stampa imbavagliata; certi nostri colleghi libici, ancora oggi, sono in difficoltà quando domandiamo loro di segreti legati a storie losche, di carnefici e fantasmi, e non si fidano a narrare.
Il dittatore Mu‘ammar Gheddafi, al potere dal 1969 al 2011, l’anno della cosiddetta Primavera araba, aveva soffocato ogni voce e chiuso i giornali. Nelle ore successive alla rivoluzione, che ebbe nell’anti gheddafiana Bengasi una fonte primaria di arsenali e guerriglieri, si diffusero duecento fra quotidiani e bollettini e riviste, la carta diveniva padrona delle strade, i fogli stesi sui marciapiedi poiché avevano riempito i negozi. Oggi sono di nuovo spariti; quanto alle tre librerie, vanno cercate a lungo, una sorge in un appartamento, bisogna salir le scale e passare la porta entrando tipo in soggiorno; flash dal passato, sotto il dittatore i libri “proibiti” stavano nascosti nelle case.
Le due Libie
Dei cantieri edili, i principali appartengono a società degli Emirati nonché di Egitto e Turchia, si calcolano antenati turchi per centinaia di migliaia di libici sui 7 milioni complessivi che abitano il diciassettesimo Stato al mondo per superficie. L’occupazione ottomana durò quasi quattro secoli. E dopo gli ottomani arrivammo noialtri. Non fossero stati così divisi, i libici, ci avrebbero subito cacciato, e pure fischiettando talmente eravamo al solito male in arnese.
È uno dei temi ancestrali e che dominano le riflessioni sul futuro, quello delle Libie. L’una che guarda al Maghreb, in lingua araba la zona dove tramonta il sole, la Tripolitania della capitale Tripoli, quella Tripoli sede del Governo ufficiale, il Ponente; e l’altra Libia mille chilometri a est, la Cirenaica, dove Bengasi è la città principale, tesa sul Mashrek, il luogo dell’alba, il Levante.
E se a Tripoli girano jeep di soldati e s’allestiscono posti di blocco (almeno tre le bande armate che vogliono comandare), a Bengasi risultano plastici gli obiettivi. Edificare. Fin dove e fin quando però lo s’ignora. Una tale massiccia riqualificazione innescherà — trattasi d’un passaggio naturale — mutamenti sociali. Vi saranno errori, e tonfi pesanti, nel processo di crescita. Logico. Prevedibile. Ma per intanto, confida Saleh Larbad, manager specializzato nel movimento terra, «abbiamo ripreso a vivere, regalarci momenti belli, uscire la sera, stare insieme».
C’incontriamo con Larbad prima sul Mediterraneo dall’impressionante trasparenza, stabilimenti balneari riservati in forma unica a donne oppure uomini o famiglie; lo rivediamo insieme alla fidanzata, ingegnera, a tracolla il borsone della palestra, di sera in un ristorante di pesce, il bancone del ghiaccio con cernie, triglie e calamari appena pescati (da pescatori in maggioranza egiziani) e a volte ancora vivi.
L’università di Bengasi
Il ristorante non sorge nella sede originale, che era al porto e fu distrutta dalle battaglie. Alla pari dell’università, eretta nel 1955, la prima in Libia, sotto la guerra trasformata dalle milizie dell’Isis in un campo base per gli addestramenti.
Nulla di quegli edifici rimase intatto, racconta il rettore, Ali Younis Ezzedine, formazione umanistica, a capo di un ateneo da 3 mila docenti, 50mila studentesse e 20mila studenti che frequentano 33 corsi di laurea, una generazione, la definisce il dottor Ezzedine, «forte, passionale, coraggiosa». Erano bambini e adolescenti, in quella stagione di violenze.
«Quest’ateneo», prosegue il rettore, con una certa commozione, bevendo in un unico sorso un caffè denso lasciato raffreddare, «è rinato, intendo nel senso vero del termine»; gli chiediamo se siano un simbolo, l’università e la sua gioventù, lui respira a lungo, «sì, un simbolo dell’intera Libia. Abbiamo avuto un recente passato di tremenda incidibile sofferenza, di autentico terrore». I fondamentalisti andavano di casa in casa a sgozzare.
Le aziende italiane
L’età media in Libia è di 27,7 anni, bassa se rapportata all’Europa ma alta in confronto al continente africano (19 anni e 16 in talune nazioni); lo stipendio medio è l’equivalente di 300 euro e una pensione di 120, un monolocale in affitto richiede 90 euro, mezzo chilo di pasta costa 60 centesimi, un chilo di mele un euro.
Cifre relative poiché, oltre ai vantaggi della menzionata benzina, i libici beneficiano della gratuità di servizi (l’elettricità) nonché dell’assenza di tasse. Condizioni vantaggiose pure per chiunque scelga di fare impresa, infatti Bengasi è frontiera di affari e investimenti delle aziende italiane in disparati settori, dall’informatica alla sanità, dalle bonifiche alle demolizioni, nella scia aperta dalla Camera di commercio italo-libica diretta da Nicola Colicchi, un ente che fa più del suo ruolo istituzionale, per costruire alleanze.
Le nostre aziende aumentano. E aumenteranno. Laddove tenga la stabilità interna, ovvio. La tenuta della Libia: il vero tema. La logica della compensazione per bilanciare le tribù in cui la popolazione è divisa. Un esercizio della compensazione è anche la strategia pratica del generale Khalifa Belqasim Haftar, di anni 83, malato eppure mai domo, amico poi nemico di Gheddafi, venerato dai bengasini avendoli salvati dai fondamentalisti dell’Isis; aveva anche provato a invadere la capitale per riunire sotto di sé la Libia, e nell’andare e venire dall’Europa per curarsi ha diviso il potere fra i figli.
Il regno di Haftar
Quattro in particolare sui nove totali (tre le donne, beneficiarie di nulla a livello di incarichi istituzionali): Khaled, Saddam, Obka Khalifa e Belqasim, quest’ultimo, ingegnere, a capo del Fondo per lo sviluppo e la ricostruzione della Libia.
Khaled è il primogenito, ha una rete di contatti diplomatici, ambisce a un ruolo egemone; nella cultura araba il primogenito gode di maggior “rispetto”, ed è sempre col nome del primogenito che si possono anche chiamare gli uomini, anziché il loro nome di battesimo il prefisso «padre» seguito, per appunto, dal nome del figlio (regola che non vale per le figlie). Obka Khalifa presiede una Fondazione operativa nel settore informatico. Saddam è il più problematico, inutile girarci intorno, promosso dal papà ai vertici militari, associato a circuiti criminali nella costruzione del suo impero finanziario, chiamato in causa nell’omicidio dell’avvocata e attivista per i diritti umani Hanan al Barassi nel 2020, associato a crimini di guerra da Ong e Nazioni unite come comandante della Brigata Tariq Ben Zeyed.
La famiglia Haftar — che è già saga, che è già romanzo popolare e forse insieme intrigo di Palazzo —rappresenta Bengasi, la Cirenaica, la prossima Libia. Incarna il potere. Lo possiede. Un potere sconfinato. L’ambizione del generale era — rimane — divenire il generalissimo delle forze armate riunificate. Quella dei figli qual è? Secondo un detto libico, tutte le cose importanti succedono a Bengasi. E secondo un detto bengasino, la città può dormire per anni silente ma quando si sveglia accelera in modo impetuoso, finanche sfrenato.
Il luogo del cuore del generale sta quassù sulla Jebel Akhdar, la Montagna Verde, in un’antica base aerea che è stato il fortino contro l’invasione dell’Isis e fu anche un bastione della resistenza contro gli italiani di Mussolini; la geografia dei figli invece — credeteci, li abbiamo inseguiti invano tutt’e quattro o almeno uno di essi per due giorni interi poggiandoci su amici, alleati, conoscenti, loro debitori — li registra lontano. In viaggio perenne. Sedi governative a Roma e Parigi, Pechino e Istanbul, Unione europea e Onu, le corti arabe.
Scendiamo a mare, prendiamo a camminare a Suw al Hout, il quartiere costiero, ancora decine le case pericolanti, dimezzate dalle bombe, senza più pareti e invase da quest’immane luce di Bengasi che è come una presenza fisica, dominante; case circondate da recinzioni per mettere le aree in sicurezza e insieme non mostrarle. Ci fermano dei passanti, una specie d’azione corale, di comune riflesso condizionato, invitano a smetterla di fotografare, basta, basta, basta macerie; dopo la guerra civile, le autorità hanno messo fretta ai proprietari, prendete i soldi, andate altrove che dobbiamo buttar giù, inutile perder mesi a riparare, si riparta daccapo ancora e ancora una volta, ancora.
18 dicembre 2025
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