di
Fabrizio Dughiero
Il direttore del Dipartimento Ingegneria Industriale dell’Università di Padova interviene sulla vicenda di Riccardo Nocini e il concorso vinto
Ogni volta che esplode un caso legato a un concorso universitario, la dinamica è fin troppo prevedibile: titoli rapidi, indignazione a comando, «baroni» come categoria indistinta e colpevole.
Capisco la pancia. Ma se vogliamo difendere il merito – quello vero – questa scorciatoia è un boomerang. Perché nel rumore generale si perdono due cose: le responsabilità precise e la credibilità dell’istituzione universitaria.
L’ultimo caso salito agli onori della cronaca è quello del concorso a ordinario all’Università di Verona vinto dal figlio dell’ex rettore, all’età di 33 anni e con un numero di pubblicazioni pari a 242, quando l’età media del passaggio da professore associato ad ordinario di medicina è attorno ai 53 anni e il numero medio di pubblicazioni per un professore ordinario di 60 anni è di 157 – dati Scopus e WoS.
C’è un aspetto che mi colpisce più del resto, più del fatto che ci troviamo di fronte ad un genio più unico che raro: non ho visto una presa di posizione chiara e pubblica dell’Ateneo di Verona. Non mi riferisco a comunicati «difensivi» o a dichiarazioni politiche, ma a una cosa al contempo molto più semplice e più potente: spiegare. Quali barriere sono state adottate contro i conflitti d’interesse, quali passaggi garantiscono la terzietà, che criteri hanno guidato la valutazione.
Quando un’istituzione comunica solo tramite atti tecnici che pochissimi leggeranno, il campo lo occupano automaticamente sospetti, allusioni e sfiducia, e allora anche chi lavora bene finisce nel tritacarne. Un nodo cruciale, in questo episodio, è il numero di pubblicazioni prodotte dall’allora specializzando, dottorando e professore a contratto, ora professore ordinario. Che un giovane medico in formazione compaia in molti lavori non è, di per sé, segno lampante di un illecito. Oggi la ricerca clinica funziona spesso per reti multicentriche, studi collaborativi, gruppi con decine di firme. Il punto è un altro: quando i numeri vanno fuori scala, smettono di essere un dato e diventano una domanda, non scandalistica, ma professionale. Qual è stato il contributo concreto? Chi ha scritto, chi ha ideato il disegno sperimentale, chi ha gestito e analizzato i dati, chi risponde delle conclusioni?
È qui che si misura la salute del sistema. Perché se la carriera si costruisce soprattutto sul «contatore» e molto meno sulla qualità, sul ruolo e sulla responsabilità scientifica, allora non selezioniamo i migliori, ma i più abili a stare in una catena di montaggio bibliometrica. Danneggiando così soprattutto chi lavora bene, fa ricerca con serietà, insegna, segue studenti, costruisce progetti, fa terza missione e tiene in piedi pezzi di amministrazione. Spesso con risorse così scarse che «limitate» è un complimento. Infine – e qui sta la ferita più grave – c’è l’effetto sui giovani. Perché i ragazzi non sono ingenui. Osservano, collegano i puntini, si fanno un’idea. Se maturano la convinzione che la carriera si costruisca più per appartenenze e cordate che per risultati sul campo, non si mettono a combattere una partita truccata. Semplicemente, cambiano campo. Prendono un volo. E noi perdiamo due volte: i talenti e l’idea stessa che il merito sia un ascensore sociale, non un’eccezione.
Io sto dalla parte dei miei colleghi professori universitari, ma proprio per questo penso che la difesa migliore non sia negare i problemi, ma pretendere regole più intelligenti e trasparenti e, quando serve, essere durissimi nel cacciare i «furbetti». Senza ammiccamenti, senza paura, senza quell’atteggiamento tutto italiano per cui l’irregolare viene guardato con indulgenza o, peggio, temuto.
Comunicazioni istituzionali tempestive sui casi controversi, commissioni con una quota esterna significativa e criteri tracciabili, dichiarazioni pubbliche e verificabili sui conflitti d’interesse, valutazioni che pesino qualità e contributo (non solo quantità), chiarezza sui ruoli nelle pubblicazioni, concorsi realmente aperti, non «a misura». Sono alcune regole che quando applicate con rigore funzionano, ma non bastano se prima non si rimette al centro l’etica delle professioni, a partire dalla nostra. Perché noi professori universitari formiamo le generazioni che guideranno il Paese e se tolleriamo noi, in primis, opacità e scorciatoie, stiamo insegnando un modello. La domanda vera non è «chi ha colpa». È, invece, «che università vogliamo?» Una che si difende col silenzio, o una che lo fa con trasparenza, responsabilità, etica e merito misurabile?
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19 dicembre 2025 ( modifica il 19 dicembre 2025 | 20:10)
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