di
Massimo Franco

Negli Anni 50, in qualità di Sottosegretario con delega al cinema, Andreotti ebbe il compito di ricostruire l’industria cinematografica dopo l’oscurantismo culturale del fascismo. Un compito che portava avanti con pragmatismo, ma che gli fece guadagnare qualche accusa di bigottismo. E un pizzicotto da parte della moglie

Nei rotocalchi degli Anni Cinquanta del secolo scorso ci sono foto ingiallite di un Giulio Andreotti giovane, meno curvo, ma sempre in doppiopetto, magari in smoking bianco, che cammina sottobraccio a qualche celebrità femminile del tempo, o conversa con registi e produttori cinematografici al Lido di Venezia o a Cinecittà. La sua non era una concessione alla mondanità; almeno, non solo. Per Andreotti, sottosegretario di Alcide De Gasperi anche al cinema e allo sport, era lavoro. Aveva il compito di ricostruire l’industria cinematografica dopo l’oscurantismo culturale del fascismo. E conciliare il primato culturale nascente della sinistra, ma anche il consumismo delle industrie americane, con la sessuofobia di ampi settori del mondo cattolico e del Vaticano.

E così, nel 1947 si presentò da numero due del governo ai capannoni di Cinecittà, nella periferia sud-est di Roma, allora occupati da sfollati della guerra, e stabilì che l’industria del cinema sarebbe tornata in quegli studi. Lui li conosceva bene, e ne era affascinato da sempre. Conservava anche una vecchia foto che lo ritraeva, adolescente, davanti ai muri degli studios con dietro la scritta «W il comunismo», e lui che scherzando fingeva di essere comunista, sorridendo col braccio teso e il pugno chiuso. Ora ci tornava col potere di ricostruirli e trasformarli, tenendo a bada quel comunismo con un patto di ferro col cinema statunitense. E naturalmente col Vaticano di Pio XII, suo mentore e faro culturale.



















































Vigilare e selezionare: i comandamenti laici che applicò furono questi. Andreotti li teorizzò applicando la «libertà guidata» sui film. Il metodo suscitava automaticamente polemiche. Implicava una discrezionalità da parte del governo che poteva tirargli addosso l’accusa di censura e di arbitrio. Ma il suo pragmatismo lo aiutò. Nel dopoguerra c’erano quaranta film statunitensi per ogni pellicola italiana. Andreotti rimediò con la programmazione obbligatoria: per ottanta giorni bisognava proiettare film italiani. E costrinse gli americani a reinvestire in Italia parte dei guadagni. Nacqua la Costellazione Film, che fece dirigere da Mario Melloni, allora democristiano, che in seguito sarebbe diventato il Fortebraccio dei corsivi al curaro dell’Unità.

In più, la BNL fu autorizzata a concedere ai produttori un «credito cinematografico» a tassi di interesse bassi. Era una sorta di Piano Marshall in miniatura. E, per Andreotti, una fonte non solo di visibilità ma di potere. Conosceva i guadagni di tutta l’industria cinematografica. E ne studiava gli orientamenti politici. Nei suoi appunti personali datati 1950 sottolineava come nel 1949 «produttori e lavoratori gridavano concordi contro l’America. Oggi questo fronte si è rotto», scriveva raccontando l’incontro con John McCarty, vicepresidente della Motion Picture Export Association. «McCarty riconosce l’aspetto politico e dice che gli americani aiuteranno il governo».

Ma per lui, cattolico papalino, il ruolo presentava due aspetti delicati: il primo era l’accusa di bigottismo e di censura; il secondo le voci su possibili amicizie femminili. Sul primo, poteva fare poco, sebbene gli si riconoscesse l’equilibrio nel calibrare interessi vaticani e dell’industria cinematografica di sinistra. Sul secondo, seguì il consiglio di De Gasperi che alla prima visita come ospite d’onore alla Festa del Cinema a Venezia gli aveva ordinato: «Portati tua moglie». Consiglio lungimirante, antitentazioni e antipettegolezzi. Ma non bastò. Una volta che gli capitò di andare da solo, fu fotografato sottobraccio a Anna Magnani. E successe un putiferio: non sui rotocalchi ma a casa Andreotti.

Raccontò che la Magnani si era avvicinata per salutarlo. «Un fotografo di Oggi immortalò il saluto. Mia moglie si arrabbiò quando vide lo scatto sui giornali. Ma ero ad almeno venti centimetri di distanza dalla Magnani. E poi non mi piaceva. Secondo me era appariscente ma brutta. Non ci avrei mai passato insieme una settimana di vacanza. A me piaceva una bellezza più normale: per esempio quella di Carla del Poggio, la moglie del regista Alberto Lattuada. La verità è che Andreotti aveva il terrore di quelle donne belle e spregiudicate, e ben disposte a lusingarlo.

Ammise che alcune «ti si offrivano. Ricordo due attrici che mi mandavano lunghe lettere di pagine e pagine, alle quali mi guardai bene di rispondere», ricordò alla soglia dei novant’anni. «Non posso dire i nomi». Non lo avrebbe mai ammesso, ma una era Silvana Mangano, la protagonista bellissima di capolavori come La Grande Guerra. 

Quanto all’incontro ravvicinato con Magnani, la leggenda racconta che la moglie, al ritorno di Andreotti a Roma, gli diede uno schiaffo, perché quella donna «aveva una fama terribile». Ma nella sua biografia, Andreotti mi ha rivelato: «Non è vero dello schiaffo. Livia mi diede solo un pizzicotto sul braccio. Forte».

La newsletter Diario Politico

Se vuoi restare aggiornato sulle notizie di politica iscriviti alla newsletter “Diario Politico”. E’ dedicata agli abbonati al Corriere della Sera e arriva due volte alla settimana alle 12. Basta cliccare qui.

20 dicembre 2025