di Marco Missiroli

Giovane aspirante scrittore, sono arrivato qui 20 anni fa da Rimini con la mia ragazza, guadagnavo 1.100 euro e ne spendevamo 835 di affitto: sapevo che ce l’avrei fatta, questo era il luogo dell’avventura. Racconto metropolitano, partendo da una pasticceria

Qualche settimana fa sono entrato in una panetteria in Porta Venezia perché avevo visto dei bomboloni in vetrina. Ne ho chiesto uno senza accertarmi del prezzo, alla cassa mi è stato detto: quattro euro e cinquanta centesimi. Quattro euro e cinquanta centesimi? Quattro euro e cinquanta centesimi. Ho risposto che avevo cambiato idea. Ho salutato, stavo per uscire a mani vuote, poi siccome sono riminese e i bomboloni sono sacri in Romagna mi è venuta la curiosità di sapere se per caso nella crema ci fosse un ingrediente segreto, magari della polvere dorata, o dello zafferano, del caviale. La commessa mi ha guardato senza rispondere, dal retro del negozio è uscito il panettiere che mi ha intimato di andarmene, una merce è una merce e chi la vuole la compra e chi non la vuole non la compra.

Ma c’è della polvere dorata nella crema?
Vada via!
Insomma, di solito sono reticente a qualsiasi forma di protesta, ma sono rimasto lì ed è cominciata una spiegazione tecnica da parte del fornaio: su quattro euro e cinquanta, metà vanno in tasse. Rimangono due euro e venticinque, da cui togliere un euro e venticinque di materie prime. Un euro e venticinque di materie prime? Un euro e venticinque di materie prime. Dei restanti due euro bisogna togliere la forza lavoro, l’affitto del negozio, le bollette. Quanto rimane di ricavo al netto? Rimane circa un euro a bombolone. Poi il fornaio è sparito nel retro, io sono uscito dalla panetteria. Tempo dopo sono ripassato di lì. Ho sbirciato in vetrina, c’erano i bomboloni ed era comparso un cartellino di quelli fosforescenti che diceva: tre euro. Mi sono avvicinato, i bomboloni erano grandi uguali a quelli della protesta. Sono entrato e ne ho ordinato uno. La commessa mi ha riconosciuto.



















































Ha visto che abbiamo abbassato?
Eppure non c’era il black friday, non c’erano i saldi, allora ho chiesto se fosse un prezzo definitivo. Sì, mi ha risposto, costeranno sempre così. Ho pagato, sono uscito e l’ho addentato camminando: era buonissimo e non aveva niente da invidiare ai bomboloni di Rimini.
Ho continuato a mangiarlo e mentre lo finivo pensavo che a quel prezzo il fornaio non ci avrebbe più ricavato l’euro di profitto. Allora, di fatto, le cose erano due: o mi aveva preso in giro la volta prima, e i margini erano molto più alti, o il senso di colpa lo aveva divorato facendosi un esame di coscienza, accontentandosi degli ossi della polenta.
Oggi Milano è questa: proteste per riappropriarsi del buon senso. Ripetiamolo: proteste per riappropriarsi del buon senso. Difficile, però, che la protesta ottenga risultati. Le case avranno sempre la stessa richiesta di affitto, i ristoranti si aggireranno sui quarantacinque euro di media bevande escluse, un bombolone tenterà di costare quattro euro e mezzo. La resa sarà una soluzione probabile: si rinuncia al bombolone. Si vira su oltra. E via via si arriverà a traslocare altrove, dove i bomboloni costano da bomboloni.

Oppure si sta al gioco: si spendono le quattro euro e cinquanta, gustandosi la leccornia immaginandola con l’oro nella crema, serbando al contempo un finto senso di meraviglia e di ingiustizia per il conto pagato. Dal fornaio, e con l’affittuario, e in trattoria, e dal fruttivendolo. Il risultato è una collusione con la presunta legge di mercato che dà adito a un’auto manipolazione: se una brioche è cara deriva dal fatto che siamo nell’unica città italiana di stampo europeo. E allora si resta, per resistenza, per rassegnazione, per forze maggiori. O per amore, come nel mio caso. Io amo Milano, seppur crudele. Ma il punto non è questo. Il punto è il senso del futuro.

Quando sono arrivato qui, da Rimini, era l’ottobre 2005. La prima casa in affitto fu in viale Monza al civico 10: in quella strada dalle undici della sera, appoggiate alle auto a spina di pesce, comparivano le ragazze che si vendevano. Sullo sfondo rilucevano gli orologi di piazzale Loreto e si capiva che era in corso la nostalgia della Milano da bere e in contemporanea una voglia di mutare. Non sapevamo che genere di mutazione, ma lo sentivamo, e sentivamo che le luci della città promettevano un avvenire. Erano gli anni di Lele Mora, dei Blockbuster, dei pubblicitari sopravvissuti ai pubblicitari. Pagavo ottocento trentacinque euro di affitto per un bilocale di cinquanta metri quadrati, spese escluse. Ero uno scrittore agli inizi che conviveva con la sua ragazza e sbarcava il lunario in un’agenzia di comunicazione. Guadagnavo mille e cento euro fra tutto, e da qualche parte sapevo che avrei trovato un appiglio oltre la giovinezza. Ce l’avrei fatta, la città ce l’avrebbe fatta. Quella Milano era la Milano che suggeriva l’avventura. Dieci anni dopo ci sarebbe stato l’Expo, avrei avuto il doppio dello stipendio, scrivendo di mattina presto e facendo un mestiere da giornalista che apprezzavo. Giravo con il motorino portato da Rimini e ricordo che mi fermavo a sbirciare i cortili interni a Brera, Conciliazione, a Solari, imparando che Milano ha un egoismo da rubare. Era facile pur essendo difficilissimo. Mancava la politica, mancavano i salotti letterari, il lavoro culturale era ancora esercitato grazie ai giornali. Non c’era il tempo di far pagare un bombolone cinque euro, e se ci fosse stato avevamo tutti la testa oltre l’ostacolo.

Adesso sì, il bombolone serve. Ci distrae dal mancato senso del futuro. È accaduto di colpo, un giorno immaginavamo di poter essere e il giorno dopo abbiamo smesso di farlo. Quando è accaduto? Ho chiesto a diciassette concittadini, in quattordici mi hanno risposto in modo simile: è colpa del Covid, l’assestarsi dello smart working con Milano che si svuota il giovedì e ritorna il martedì. Per un’altra persona questo inquinamento e la scarsa sicurezza sono i fattori degenerativi primari. Due sostengono sia semplicemente un nodo venuto al pettine: è la città più importante d’Italia e rappresenta l’Italia di oggi, il potere d’acquisto inesistente, scarsi ammortizzatori sociali, questo è il risultato. Tra loro, uno è un amico di Verona, mio coetaneo, proveniente da studi bolognesi come me, trasferitosi al nord circa i miei stessi anni. Carriera in pubblicità, poi in produzione di eventi, stipendio a quattromila euro al mese. Case sempre in affitto. Dopo la pandemia ha comprato un casale sulle colline piacentine, un mutuo onerosissimo. Il weekend si sposta lì, sputando sul selciato di Milano prima di salire in macchina. L’aveva amata, questa città. Ora non più. Perché? Per tutte le ragioni che sappiamo, e «perché adesso è impossibile amarla». Ma allora perché io ti amo ancora, Milano? Per la base economica che mi ripara a decenza dai tuoi colpi e che mi sono strutturato anche grazie a te. Questo è indubbio. Ma non basta.
L’altro giorno ho avuto una mattina libera per uscire di casa dopo la frattura alla clavicola che mi teneva segregato e non mi permetteva di lavorare. Per la prima volta riuscivo a camminare dritto indossando un tutore che mi legava la spalla, così mi sono avventurato fuori, seppur con lo spavento che segue questo genere di rogne, stare attento ai movimenti, non tirare troppo la corda. Sono andato al bar dei cinesi e ho bevuto un caffè. Ho aperto i quotidiani, leggiucchiato, annunciavano che la mostra di Valerio Berruti a Palazzo Reale sarebbe stata prorogata fino al 30 di novembre. Uscendo dal bar ho attraversato via Eustachi e ho percorso un pezzetto di via Stoppani perché sentivo che valeva la pena riprendere dimestichezza con l’esterno. A metà di Stoppani ho incontrato una conoscente: aveva saputo della clavicola, come stavo adesso? Ci siamo fermati a parlare, mi ha confidato della produzione di un podcast a cui sta lavorando come autrice e conduttrice, volevo ascoltare il jingle della sigla?

L’ha cercata sul telefono, l’ha fatta partire, ci siamo scambiati dei pareri, poi ci siamo salutati. Mi ha rallegrato e in cuor mio sapevo che Milano non ha perso il vizio di mettere lo zampino quando serve. Dopo aver salutato la conoscente, il braccio mi faceva poco male e mi è venuto di passeggiare. Mi sono incamminato e sono arrivato fino al cuore di Porta Venezia, ho sbirciato le vetrine, sono entrato da Fortela, uno dei miei negozi di abbigliamento preferiti: ho curiosato, mi hanno offerto un secondo caffè. Andandomene ho notato che nel dehor un cameriere stava testando dei proteggi fiamma per delle candele tortora. Mi è venuta in mente la chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore, nelle Cinque Vie, dove tempo prima avevano allestito dei lumi simili.
Ho tirato fuori il cellulare e mi sono fatto calcolare il tragitto con i mezzi pubblici per raggiungerla. Ho desistito, Palazzo Reale era più vicino, magari con un passo accorto potevo arrivarci a piedi e rivedere la mostra di Berruti. Mi sono incamminato, e stavolta sapevo che non avrei incontrato conoscenti. Ho attraversato corso Buenos Aires già addobbato a festa e i giardini pubblici di Porta Venezia con le foglie del tardo autunno e la terracotta del Museo di Storia Naturale bruna per la mattina. Mi sono addentrato nei giardini, e dopo la giostra e le anatre ho tenuto una marcia quieta e regolare fino a destinazione. Ho rivisto la mostra, sostando a lungo nella stanza con le bambine in ginocchio.

Quando sono uscito non era freddo e la clavicola mi doleva il giusto. In venti minuti di cammino sarei potuto essere a San Maurizio. Che fare con una spalla così malridotta? Milano assiste ancora gli azzardi, e i miracoli. Mi sono avviato timido, avevo voglia di addentrarmi nelle Cinque Vie. È la geografia dove qui è nato tutto, il commercio e i santi, i germi delle rivoluzioni e i sentimenti manzoniani. Poi però mi sono sentito stanco ma non volevo rinunciare e ho deciso per la metropolitana, imboccandola alla fermata Duomo.
Sono sceso alla stazione di Cadorna. San Maurizio al Monastero Maggiore affaccia su Corso Magenta, quasi di fronte al Teatro Litta. Mi sono occorsi due passi per entrare in chiesa. È un luogo lasciato alla propria grazia, come molti prodigi milanesi. Conosciuti, sconosciuti, risvegliati.
In una delle piccole cappelle c’è un affresco di Aurelio Luini. Ritrae l’Arca di Noè. È un’opera dall’aura festosa e si racconta possa esaudire due desideri. Due, non uno: come la coppia di unicorni che il Luini ha ritratto con un istinto magico, tra gli animali che salgono all’Arca per salvarsi dal giudizio universale di Milano.
Due unicorni, un giorno qualunque, in segno al futuro. Quale altra città, li ha?

CHI E’?

Lo scrittore Marco Missiroli è nato a Rimini 44 anni fa. Il suo romanzo d’esordio, Senza coda (Fanucci, 2005), ha ricevuto nel 2006 il Premio Campiello Opera prima. Nel 2019 con Fedeltà (Einaudi), tradotto in 32 Paesi, ha vinto il Premio Strega Giovani. Il suo ultimo romanzo è Avere tutto (Einaudi, 2022)

20 dicembre 2025