La parabola dei film originali Netflix ha qualcosa di incredibile, uno spaccato, forse, della pochezza del capitalismo più becero. Sulla carta, una piattaforma che mette sullo stesso piano produzioni dagli angoli più disparati del mondo, dando loro le stesse possibilità in termini di diffusione, è un’idea eccezionale, rivoluzionaria. Nella pratica, quello che è successo è stato invece che, per essere distribuiti da Netflix, i film internazionali si sono adeguati a una serie di format standard, quella roba che ormai noi prendiamo per il culo perché “scritta con l’AI”. Uno dei preferiti dagli amiconi Ted Sarandos e Reed Hastings, perché evidentemente va forte tra gli utenti che “Cosa guardo stasera di abbastanza generico da non disturbare la digestione dell’hambuger che ho appena ordinato su Glovo, ma con quella punta di riflessione in più da farmi sentire sufficientemente intelligente?”, è il thriller claustrofobico con metaforone annesso. Brick ci rientra pienamente, ma, Shyamalan Twist, è molto meno peggio di quello che pensavo e decisamente meglio di Il buco e annesso sequel (con cui condivide l’idea di scendere di livello attraverso dei… buchi!). Se non altro dipende meno dalla metafora per creare un senso, e di conseguenza dà meno fastidio. Sigla!
Il buco, se ci pensate, togliendo appunto tutta la banale metafora sociale, non ha niente altro da dire in termini di mitologia, in quanto tutto resta intenzionalmente vago. Una posa “artistica” che maschera una pressoché totale vuotezza di contenuti. Sia chiaro, a me questo modo di costruire un film infastidisce anche quando a farlo sono registi cosiddetti “bravi”, tipo Aronofsky con Madre!, figurarsi quando non c’è nemmeno una visione registica interessante. Philip Koch, regista e sceneggiatore di Brick, mi sta più simpatico perché, se non altro, ha capito che questa cosa di puntare tutto sulla metafora, come scusa per non dare spiegazioni, ha rotto i maroni, e che, nella fantascienza, la speculazione tecnologica è importante quanto il sottotesto metaforico. Capiamoci: in Brick il metaforone c’è eccome, è centrale, ovvio e pedante esattamente come vi aspettereste da un film Netflix. La differenza qui è che Koch si sbatte per dare un senso all’evento bizzarro che apre il film e costruisce lo stesso come un’indagine per risolvere un enigma e salvarsi la vita. Come in un videogioco.
Il buco 3
Non è un caso che Tim, il protagonista interpretato dalla star dello Snyderverse Matthias Schweighöfer, sia un programmatore di video game. Tim vive ad Amburgo insieme alla compagna Olivia (Ruby O. Fee), e i due sono in crisi per ragioni che non specifico, ma che si capiscono immediatamente nonostante il film finga che si tratti di un colpo di scena. Una mattina, Olivia si decide a lasciare Tim, ma quando prende la porta scopre che questa è bloccata da uno strano muro di metallo. Non solo: presto scopriamo che tutto il palazzo è murato. Così, Tim e Olivia sono costretti a farsi strada attraverso i piani, sfondando muri e pavimenti e collaborando con i vicini – una coppia di fidanzatini in vacanza, un anziano e sua nipote, un complottista che non la racconta assolutamente giusta – per trovare una via d’uscita.
Naturalmente non ci vuole un laureato in semiologia del cinema per capire quale sia il metaforone della situa: Tim e Olivia hanno vissuto una tragedia e sono bloccati da due anni in un loop doloroso, che prende la forma di un vero e proprio muro impenetrabile che li blocca nel loro appartamento. L’unico modo per uscirne è lavorare insieme per affrontare il trauma e bla bla bla. A un certo punto, l’immancabile scena in cui i personaggi si confrontano prima del contrattacco, dichiarando agli altri le proprie motivazioni e paure, è costruita apposta per svelare il trauma di Tim e Olivia come se non l’avessimo già capito dopo due minuti. Tutti gli altri hanno le loro backstory, ma sono talmente poco interessanti da rendere palese che siano soltanto delle comparse nell’arco di redenzione di qualcun altro. Il che, onestamente, se fossi al posto loro mi farebbe incazzare: pensa affittare con la tua morosa un B&B per una vacanzina ad Amburgo e finire murato vivo in un condominio solo perché due stronzi devono processare un lutto. Come minimo l’host si beccherebbe una brutta recensione.
“Sono morte diverse persone e non funzionava il wi-fi!!!”
Comunque, come dicevo all’inizio, per fortuna Koch non dimentica che, oltre la metafora, deve esserci anche un vero film. Traduzione: sì, tranquilli, c’è una spiegazione dietro il misterioso muro, verrà scoperta dai protagonisti e usata per trovare una via d’uscita. Ovviamente Tim e Olivia daranno il maggiore contributo alla soluzione, ma anche gli altri personaggi aiuteranno in modi più o meno importanti. L’unico a remare contro è il complottista alt right, convinto che il muro sia una forma di protezione da una minaccia esterna, che si tratti di un’epidemia o una guerra atomica. Ed è qui che Brick si tinge anche di un minimo di politica: è un film tedesco prodotto in un momento storico in cui un partito populista dalla visione del mondo paranoica e anti-scientifica (notato come non ho usato la parola con la “N”?) sta raccogliendo sempre più consensi, e ci dice che l’unico modo per uscire dall’impasse è non ascoltare quelle voci irrazionali e collaborare con una manciata di estranei dal colore della pelle diverso dal nostro. È, in parole povere, l’algoritmo produttivo di Netflix usato bene. Forse sto leggendo troppo in un filmetto di un’ora e mezza a uso e consumo di borghesi divanati? Può darsi, ma mi piace pensare di no.
Per il resto, non è che Brick brilli particolarmente per originalità, ma se non altro Koch scrive dei personaggi abbastanza credibili da non risultare mere funzioni narrative. Certo, non mancano le scene stupide d’ordinanza – tipo una sequenza in cui i personaggi devono trovare il codice per aprire una porta segreta dopo aver passato mezzora di film a sfondare muri e pavimenti con un martello da demolizioni. Eppure l’idea di strutturare il film come un videogioco – i personaggi esplorano l’ambiente, accedono a nuovi appartamenti/livelli e risolvono enigmi per trovare nuovi strumenti, spesso nascosti in letterali magazzini segreti – si rivela vincente, anche perché distrae dai veri intenti del film, cullandoci nell’idea che questo sia solo l’ennesimo reality show deviato.
Sottilissime metafore
Il finale, anche qui, non è niente di nuovo, ma si regge su una trovata semplice eppure coerente con l’assunto di base, anche se inaspettata quanto basta per strappare un sorriso. A volte ci si deve accontentare, e ci siamo accontentati di cose ben più disoneste di Brick.
Cosa-guardo-stasera quote:
“Another film in the wall of the homepage of Netflix”
George Rohmer, i400Calci.com