di
Carlo d’Elia

Aiuto cuochi, lavapiatti, camerieri e addetti alle pulizie, spesso provenienti dal Banglasesh, vivono spesso in spazi minuscoli e indegni, pagando affitti sproporzionati e lavorando giorno e notte

Dalla porta d’ingresso alla fine della casa bastano cinque passi. Venticinque metri quadrati, non uno di più. «L’appartamento è già finito», dice Ismail con un mezzo sorriso, mentre mostra dove vive all’ultimo piano di un complesso residenziale in via Imbonati. Dentro ci sono lui, la moglie e due figli piccoli. Un divano letto, un tavolino pieghevole, una cucina compressa in un angolo. Ismail dorme su un materasso appoggiato a terra: il letto lo lascia ai bambini. In Italia dal 2005, Ismail lavora regolarmente, anzi troppo: un impiego di giorno e uno di notte, pulendo le cucine di un ristorante in zona Isola. «Le spese sono troppe e non posso fermarmi mai — racconta —. Il sogno sarebbe una casa più grande, per far crescere i miei figli. Ma è dura. Qui pago 600 euro al mese in nero: a questa cifra è impossibile trovare altro in città». 

Ismail è egiziano, ma la sua storia non è un’eccezione. Nel quartiere Isola, uno dei cuori della movida milanese, illuminato dalle insegne dei bar e dai ristoranti sempre affollati, si consuma ogni giorno una realtà opposta a quella patinata della notte: aiuto cuochi, lavapiatti, camerieri e addetti alle pulizie vivono spesso in spazi minuscoli e indegni, pagando affitti sproporzionati che divorano stipendi già bassi. In larga parte si tratta di lavoratori del Bangladesh, ma non solo. Tra Maciachini, via Farini e le strade limitrofe il copione si ripete. Monolocali sovraffollati e soffitte adattate ad abitazioni, con contratti assenti e canoni al limite dell’estorsione. Non episodi isolati, ma un sistema. A sostenerlo è Giovanni Carenza dell’Unione Inquilini, che insieme a Savina Perchinelli del Comitato solidale di Niguarda e Bicocca, seguono numerosi casi legati alle difficoltà abitative dei lavoratori della ristorazione nei locali più chic della zona. «I proprietari speculano sulla necessità di restare vicino al lavoro», sostiene Carenza. «Se la tua casa è a due ore di distanza, non reggi i ritmi che la ristorazione impone». È quanto sta accadendo a una famiglia bengalese, che vive in via Farini da oltre dieci anni, e che per un appartamento vecchio e mai manutentato ha ricevuto una richiesta di aumento secco dell’affitto di 500 euro: il canone salirebbe così a 1.300 euro mese. «Una cifra insostenibile», spiega il capofamiglia che da solo mantiene moglie e tre figli, e che ora teme di essere sfrattato. In un altro appartamento di via Imbonati la situazione è ancora più critica con cinque persone che vivono da anni in un monolocale che l’Ats ha dichiarato insalubre. «Il problema — sottolinea Carenza — non è solo l’abuso del singolo, ma il sistema che lo rende possibile».



















































Lo stesso schema si ritrova ai Navigli, altra zona simbolo della movida milanese. Qui Hira, bengalese di 28 anni, che ha sempre lavorato nella ristorazione, abita con la moglie e il figlio di tre anni in un sottotetto di appena venti metri quadrati, con un solo divano da dividersi in tre e senza riscaldamento: d’inverno una stufetta elettrica è l’unica fonte di calore, mentre, quando piove, l’acqua filtra dal soffitto. Ogni mese paga 700 euro di affitto, rigorosamente in nero. Ma negli ultimi mesi la situazione è precipitata ulteriormente: il tribunale di Milano ha informato la famiglia che l’immobile in cui vivono era già stato pignorato al proprietario e, ovviamente, non poteva essere affittato. «Per questa storia siamo stati definiti occupanti abusivi — racconta l’uomo, arrivato dal Bangladesh da solo a 17 anni —. Ho speso quasi tutti i miei soldi per l’affitto e per gli anticipi delle mensilità. Ho tanta rabbia e lotterò per far rispettare i miei diritti. Amo Milano, mi piace la città e vorrei far crescere qui mio figlio. Ma come posso fare?».


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21 dicembre 2025 ( modifica il 21 dicembre 2025 | 07:44)