di
Nicolò Franceschin
L’ex centrocampista nerazzurro: «Stavo male per la separazione da mia moglie. A Milano Zanetti, Mancini e Icardi provarono ad aiutarmi. In Cina la mia dipendenza è peggiorata, oggi lavoro in una fondazione»
Cos’è la vita per Fredy Guarin?
«La vita è pace, tranquillità, felicità. Sono qui dopo essermi allenato, ho una famiglia a casa, ho recuperato il rapporto con i miei figli, apprezzo le piccole cose. Ora sono felice e lo so. La vita è bella».
Non sempre, però, è stato così per lei.
«Ho bussato alle porte dell’inferno. Ho dovuto toccarle per rinascere. Dico sempre che strade come quella dell’alcolismo hanno quattro destinazioni: l’abbandono, l’ospedale, il carcere, la morte».
Lei dov’è arrivato?
«Sono arrivato fino alla terza. Mi ero costruito una prigione interiore. Sono stato a un passo dall’ultima, la fine di tutto».
È sereno Fredy Guarin. Parla seduto in un centro commerciale davanti a un caffè. È in Colombia, lì dove per lui da un anno è iniziata una nuova vita. In quella precedente aveva conosciuto le ombre della solitudine, della depressione e dell’alcolismo, toccando lo spettro del suicidio. «Ora con la mia fondazione voglio aiutare gli altri a non commettere gli stessi errori».
Andiamo con ordine. Nel 2012 arriva in Italia.
«Un sogno diventato realtà. L’Inter ancora oggi per me è famiglia».
Due immagini. Il mancato scambio tra lei e Vucinic e il gol nel derby.
«Il primo è stato un momento duro. Il club mi aveva avvisato dell’offerta della Juve. Io volevo rimanere, ma Mazzarri chiedeva Vucinic. E i tifosi pensavano che fossi io a spingere per l’addio. La rete contro il Milan è stata l’ultima con la maglia nerazzurra, speciale. Ho ancora i brividi».
Quando è iniziato il suo malessere?
«Durante i miei ultimi mesi all’Inter. Ho iniziato a bere. Ma l’alcol non era il vero problema».
Ci spieghi meglio.
«Stavo male per la mia situazione familiare. Mi stavo separando dalla mia ex moglie, vivevo in un’altra casa ed ero lontano dai miei bambini. Non lo accettavo. L’alcol era un tentativo di rispondere al mio malessere, un rifugio dove nascondermi».
Qualcuno si era accorto della sua situazione?
«Gli altri sì, io no. Zanetti, Stankovic, Mancini, Icardi, Cordoba e altre persone dell’Inter cercavano di aiutarmi, ma il mio problema ormai era già troppo grande, difficile da controllare. Per questo motivo ho dovuto lasciare l’Italia».
Ed è andato in Cina.
«E la mia dipendenza è peggiorata. Ero in un nuovo Paese. Io, da solo con il mio problema. Bevevo, mi allenavo, giocavo. Il pallone in quegli anni era il mio psicologo. Era l’unica cosa che mi costringeva a rispettare orari, appuntamenti, responsabilità».
Cosa le faceva più male?
«Avevo perso la mia famiglia. I miei figli erano lontani ed ero il responsabile di quella situazione»
Poi è tornato in Sud America.
«Quando sono andato in Brasile è scoppiato il Covid. In quel momento è venuta meno anche quell’unica cosa che ancora mi salvava: il pallone. Con la pandemia tutto il mondo si era fermato, compreso il calcio. E io ero rimasto senza niente a cui aggrapparmi, ancor più solo con me stesso».
In Colombia ha giocato le sue ultime partite.
«Nel 2021 sono arrivato al Millionarios. Avevo smesso di bere, ma dopo qualche mese ho ricominciato. È stata la fine. Ho smesso col calcio. Sono iniziati tre anni di autodistruzione. Bevevo e basta, senza reagire».
E un giorno ha aggredito suo padre.
«Ero ubriaco, non ero io. Ogni volta che posso lo abbraccio e mi scuso, ma lui mi ha già perdonato da tempo».
Ha mai avuto paura di non farcela.
«Ho pensato di suicidarmi. E tre volte ho provato a togliermi la vita. Dio mi ha salvato».
Ha bussato alle porte dell’inferno, ma non ci è entrato.
«Un giorno ero a casa da solo e avevo bevuto. Chiamavo le persone, non rispondeva nessuno. Stavo pensando di farla finita. Ero stanco di tutto. Ho telefonato alla mia psicologa e al mio agente per chiedere aiuto».
Ed è iniziato il suo percorso riabilitativo.
«Mi hanno portato in una fondazione. Lì è iniziata la mia partita più importante. Ho fatto tutto quello che mi hanno chiesto. Ho smesso di bere. Per due mesi mi sono svegliato alle sei di mattina e per tutto il giorno seguivo sessioni di allenamenti o facevo incontri con psicologi e psichiatri. Poi mi è stato fatto un programma riabilitativo. Non ho più smesso di seguirlo. Mi ha salvato».
Ha rivisto i suoi figli?
«Dopo sei mesi dall’inizio del mio percorso. Non li incontravo da quattro anni. Ricordo bene quel giorno. È stato bellissimo. Per molto tempo mi ero sentito in colpa nei loro confronti. Non è stato facile raccontare ciò che avevo fatto, ma era la cosa giusta. Ho parlato dei problemi con la loro mamma, della sofferenza provata, della dipendenza dall’alcol… di tutto».
Come hanno reagito?
«Non mi hanno perdonato subito. Prima mi hanno ascoltato, con il tempo mi hanno compreso e perdonato. Non tanto per le parole, ma per i miei comportamenti. Hanno capito che ero cambiato davvero. Ora abbiamo un rapporto molto diretto e sincero. Non voglio che tocchino droga o alcol. Se vedo mio figlio con una birretta, gli ricordo sempre che suo padre è stato un alcolizzato».
E lei ha perdonato se stesso?
«Sì. È stato il primo passo per ricominciare».
Dopo aver raccontato la sua storia, qualche giocatore l’ha contattata?
«Molti, non solo per esprimermi il loro sostegno. Diversi mi hanno scritto per chiedermi aiuto. Durante la carriera o quando si smette è facile sentirsi smarriti e si rischia di rifugiarsi nell’alcol o nella droga. Vedendo la mia storia, volevano consigli su come uscire da situazioni simili».
E aiutare gli altri è la sua nuova missione.
«Lavoro nella fondazione con la mia psicologa, voglio mettere la mia esperienza a disposizione delle persone. Vedete, quando si sta male è facile sbagliare strada. All’inizio sembra andare meglio, ma non ci si accorge che intanto si precipita nell’abisso. Pensavo che la felicità fosse fatta di soldi, feste, tante persone che ti circondano per la tua fama. C’è un concetto che spiega bene il mio cambiamento».
Qual è?
«Sono passato dalla prospettiva del “por qué?” a quella del “para qué”. Per anni mi sono chiesto perché tutto quello stesse succedendo proprio a me. Ora ho compreso che tutto ci accade per un motivo preciso. Dio ci guida. Ciò che ho passato mi è servito per poter comprendere la mia missione: aiutare gli altri».
Oggi Fredy Guarin come sta?
«Sto meglio. Sono grato per questa seconda opportunità che la vita mi ha dato. Sono più orgoglioso per questa mia rinascita che per quanto ho fatto nel calcio. Ora posso dirlo: sto vincendo la mia battaglia».
21 dicembre 2025 ( modifica il 21 dicembre 2025 | 07:32)
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