“Tutti gli autori sono unici, ma forse Pupi lo è più degli altri”. ‘Pupi Avati. Che cinema la vita!’ – scritto e diretto dal regista imolese Mauro Bartoli assieme a Lorenzo Stanzani e prodotto da Lab Film – non è una semplice biografia.
È un “viaggio sincero” nell’universo creativo e personale del maestro bolognese, nel quale cinema e vita vissuta si intrecciano fino a diventare una cosa sola. A dare profondità al ritratto, le testimonianze di chi ha lavorato al suo fianco – come Neri Marcorè, Lodo Guenzi, Steve Della Casa, Ezio Greggio e Filippo Scotti – e della sua famiglia: la sorella Mariella, la figlia Mariantonia e il fratello Antonio. Impreziosita dalla colonna sonora di Giacomo Toni, di Forlimpopoli, e Roberto Villa, la narrazione alterna scene sul set, interviste esclusive, materiali d’archivio e momenti privati. Ora il documentario è disponibile su RaiPlay, dopo essere andato in prima serata, su Rai 3, venerdì.
Bartoli, qual è stato il vostro approccio nel raccontare una figura che ha segnato decenni di cinema italiano?
“Siamo partiti dal fatto che Pupi è un regista abituato a raccontarsi. Lo fa quando è ospite di trasmissioni televisive e durante gli incontri con il pubblico. Più volte ha parlato di come ha iniziato, dei successi e dei fallimenti. Ha un’innata capacità di raccontarsi. I suoi ricordi sono ricchi di colpi di scena, tanto da sembrare una sceneggiatura. Quindi, abbiamo trovato interessante raccontarne la carriera mescolando ciò che lui dice di sé stesso e le sue pellicole. Da qui nasce il titolo: rappresentare il lavoro di un artista come se fosse un film”.
Come ha reagito quando gli avete proposto questo progetto?
“Ha accettato subito e, fin dal primo incontro, si è dimostrato una persona molto disponibile. Non ci ha posto limiti, ci ha lasciato la massima libertà creativa. Siamo stati con lui per più di un anno, sul set e nel tour promozionale de ‘L’orto americano’ e alla Mostra del cinema di Venezia per esempio. Quando noi cercavamo di realizzare il nostro film, lui ne ha girati tre”.
Quanto è stato difficile racchiudere in soli novanta minuti la vita di un autore così prolifico?
“È l’ostacolo più grande quando si realizza un racconto biografico. Condensare sessant’anni di lavoro in un’ora e mezza significa fare delle scelte. Qualcosa rimane fuori per forza. Noi ci siamo concentrati sull’idea di raffigurare un artista che mette tanto di sé nelle proprie opere, ma che, allo stesso tempo, si racconta come se fosse in un film”.
C’è qualche scena in particolare che le è dispiaciuto tagliare dal montaggio finale?
“Certo, a vent’anni, Pupi voleva fare il musicista e suonava il clarinetto in una band di Bologna. Ma Lucio Dalla, che ovviamente aveva più talento, gli rubò il posto. È un episodio che, purtroppo, nel documentario, ha avuto poco spazio”.
Avevate una bella responsabilità. Sentivate il peso della pressione?
“Sì, in primis perché abbiamo utilizzato un linguaggio di cui Pupi è un maestro. Durante le riprese mi chiedevo: Sono all’altezza? Sto facendo le scelte giuste? Ma era una pressione sana che ci ha portato a curare ogni dettaglio, soprattutto la qualità della fotografia”.
Dopo la messa in onda in prima serata di venerdì su Rai 3, avete in programma anche un passaggio nelle sale?
“Ci stiamo pensando, alcuni ce lo hanno chiesto. Abbiamo fatto qualche presentazione, una a metà ottobre al Modernissimo insieme alla Cineteca di Bologna. Vediamo cosa ci riserverà il futuro”.
Il suo film preferito di Pupi Avati?
“Non sarà il più famoso, ma dico ‘La via degli angeli’. Un altro che amo molto è ‘Regalo di Natale’”.