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C’è un vuoto che non si misura in assenze rumorose, ma nel silenzio lasciato da chi ha lavorato tutta la vita lontano dai riflettori. Con la scomparsa di Massimo Velo (1949–18 dicembre), Napoli perde uno dei suoi più rigorosi e umani custodi della memoria visiva: un fotografo che ha fatto della documentazione dei beni culturali non solo un mestiere, ma una forma di responsabilità etica.
APPROFONDIMENTI
Il percorso
A raccontare meglio di chiunque altro il suo percorso sono le sue stesse parole, recuperate da un post sui social: frammenti di autobiografia, riflessioni lucide e disincantate, attraversate da una profonda consapevolezza del tempo e della storia.
Negli anni Settanta inizia la sua attività professionale, lavorando con quasi tutte le istituzioni culturali più prestigiose della Campania. Ovunque è stato apprezzato per la competenza tecnica, il rigore e una passione mai ostentata. Era un maestro del banco ottico, strumento che maneggiava con una perizia oggi sempre più rara. Dal 2005 in poi, generazioni di studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli hanno beneficiato della sua esperienza, del suo modo diretto e ironico di trasmettere il sapere, del rispetto quasi sacrale per il processo fotografico. Massimo Velo non ha mai cercato di proporsi come autore. Pur avendone le qualità e la sensibilità, sentiva la necessità di restare umile, di non confondersi con chi, frequentando i luoghi dell’arte, si autocelebra come artista. La fotografia, per lui, era prima di tutto lavoro e mestiere, da difendere e coltivare con dignità, in una città e in un mondo in cui — come scriveva — “nessuno ti fa un favore se non vi è un ritorno”.
La sua mostra personale
La sua unica mostra personale, Il capitale di Max, è arrivata solo nel 2016, alla Galleria Mediterranea, dopo molte insistenze. Un titolo che suonava come una dichiarazione ironica e insieme politica, coerente con il suo sguardo critico sulla società e sulle sue disuguaglianze. Velo non ignorava i limiti dell’ambiente culturale napoletano: ne denunciava il classismo, presente persino negli ambienti della sinistra storica, ma senza mai perdere il gusto dell’osservazione e dell’ironia. Era un fotografo analogico non solo nella tecnica, ma nel pensiero. Il suo obiettivo era “ottenere la migliore impronta possibile”: nessun interesse per le manipolazioni digitali, nessuna concessione all’effetto. La camera oscura restava per lui un luogo di piacere e concentrazione, così come motivo di orgoglio era aver fotografato beni culturali in condizioni spesso difficili, con mezzi limitati ma con una dedizione assoluta. Nonostante il carattere tecnico del suo lavoro, il suo approccio alla vita era profondamente umano. Cercava sempre una spiegazione fondata su basi etiche, non sopportava ingiustizie e soprusi, osservava con attenzione il mutare della città. Era deluso dalla Napoli contemporanea, che giudicava troppo cinica ed egoista, ma diceva di ritrovare tracce di autentica umanità nei Quartieri Spagnoli, dove viveva.
Il progetto
Un mese fa, incontrato all’Archivio di Stato durante una mostra, aveva raccontato con discreta soddisfazione di aver finalmente trovato un luogo dove conservare il suo vasto archivio e di voler avviare progetti per valorizzarlo. Un appuntamento fissato per gennaio 2026 non ci sarà mai. Resta ora la speranza che quel patrimonio non venga disperso e che qualche istituzione se ne faccia carico. A chiudere idealmente il suo percorso restano parole che oggi suonano come un testamento poetico. In un altro post, Massimo Velo immaginava le vite come carte riposte in un grande archivio, sovrapposte, segnate, talvolta bruciacchiate dal tempo. Solo le esistenze “perbene”, scriveva, riescono a sollevarsi lievemente quando vengono ricordate.
Oggi, nel ricordarlo, quella carta si solleva. E resta.

