Giovanni Battaglin sa già dove vuole arrivare. Ti ci siedi di fronte e ti guarda, aspetta la mossa, ascolta e studia. Da vecchio corridore che prende la misura per scattare al momento giusto. Che cos’è la vita se non un confronto come una corsa?

Prima ancora di fargli domande pensi a quello sguardo addosso che si trovavano gli avversari in corsa, bocca asimmetrica che non sai se è sorriso o sforzo. Una sfida.
Stavolta solo un’intervista.

Dalle biciclette al corridore che è ancora

Siamo partiti dalla pianura, parlare delle sue biciclette, prima della salita. A tirare il gruppo ora c’è Alessandro Battaglin, il figlio di Giovanni, testa bassa e menare, il papà dietro, a orchestrare, osservando il mercato, trovando i contatti che servono. Telai che brillano lucenti di cromovelato, una sorta di marchio di fabbrica di Officina Battaglin.

All’estero ci diventano matti, mica è un caso che nello showroom siano montate praticamente tutte Campagnolo.
Ci sono ricerca estetica e tecnica, Battaglin capitano dice la sua sulle misure, Battaglin jr dispone perché tutto avvenga. Le idee non mancano.
Ora, poi, con tutti questi rapporti.

La battuta è come presentare una salita su cui scattare a Giovanni, sempre corridore. Parliamo della tripla moltiplica?
Erano tempi in cui sulle salite dure altro che agilità, ci si accartocciava sulla bicicletta guardando la ruota davanti e sperando che finisse presto.
Il problema era concreto.

«Era il 1980 – racconta Battaglin – e si doveva affrontare la Valcava. Sterrato, ciottoli e una pendenza al 22 per cento. Davanti il rapporto più piccolo possibile era il 41, non bastava».

Mentre molti corridori riposavano, Battaglin si chiuse in un garage con il meccanico Giuliano Belluomini. Forarono e filettarono una guarnitura, aggiungendo un ingranaggio da 36 denti. Rondelle usate come spessori, nessun deragliatore adatto.

«Per cambiare rapporto bisognava spostare la catena a mano, con le dita, mentre un gregario spingeva».

Impensabile oggi, ma lì non c’era a disposizione un deragliatore adatto.
Quell’intuizione sarebbe diventata decisiva l’anno successivo, sulle Tre Cime di Lavaredo, nel 1981 del trionfo al Giro d’Italia.

Il divertimento di correre

Si diverte Battaglin a raccontare, guarda al mercato di oggi e pensa alle pedalate di ieri e ammette: «Sì, mi sono divertito in bicicletta – chiarisce subito – quando stavo bene eh, perché pure io ne ho passate, come quell’intossicazione alimentare che ci ha mandato tutti a casa dopo una notte d’inferno».

Giovanni Battaglin non ti racconta le corse, parla di ciclismo e dipinge un quadro dando colpi di colore di cui non intuisci subito il senso. Alcune immagini ti si ricompongono in testa nel silenzio mentre torni a casa. Ti fa sentire i colpi del pavé nelle gambe e il fango scivoloso. «C’erano dei muri di fango stampato dai trattori, e il pavé, non credere, mica era quello di oggi. Ci sono le associazioni che lo tutelano. Adesso è asfalto – si ferma un attimo e guarda l’effetto che fa – E dovevi starci in equilbrio con quelle ruote. C’era questo corridore che continuava a puntarmi il manubrio nel sedere, è un modo per dirti che vuole spazio. Mi bastava dare un colpetto ai freni per toglierlo di mezzo e farlo cadere, ma queste cose non le ho mai fatte. All’ennesimo episodio gli ho afferrato la bici per l’attacco manubrio e l’ho spostato fuori strada. Poi siamo diventati pure amici»

Negli occhi ripassa quel lampo che non è cattiveria, è rispetto. Spande un colore acceso sulla tela del racconto.
Già, il rispetto. Dovevi conquistartelo e guai a sgarrare. «Gimondi? Era uno dei più tosti. Decideva e aveva ragione, mica come adesso»

Cos’è cambiato adesso?
«Mah, son tutti giovani e non si fermano più. Anche ai mei tempi c’erano i giovani irruenti ma gli si faceva capire come funzionava (ancora quel ghigno di traverso, ndr) e tutto funzionava. Ma era pure giusto: il campione si giocava la classifica, meritava rispetto, mica poteva cadere per una stupidaggine.

Giovanni Battaglin48 giorni dal giallo della Vuelta al rosa del Giro

Il 1981 non fu solo l’anno del Giro, ma anche quello della doppietta con la Vuelta, una doppia conquista lunga appena 48 giorni. Un’impresa che racconta meglio di qualsiasi statistica cosa fosse il ciclismo di allora. La Vuelta si correva in 22 tappe senza un solo giorno di riposo, spesso con semitappe mattutine e pomeridiane. Il recupero era precario: non sempre c’era una doccia, il cibo era quello che si trovava lungo i trasferimenti, e il tempo per riposare era ridotto al minimo.

La forza di Battaglin non stava solo nelle gambe, ma in una preparazione costruita sulla resistenza: «Facevamo allenamenti di otto ore a giorni alterni per venti giorni, una crescita graduale di condizione che portava a migliorare tappa dopo tappa e la fatica faceva la differenza. Oggi mettono queste salite durissime che non servono a niente, non fanno differenza. I distacchi si fanno su salite impegnative che se salti sono minuti che volano. Bastano salite all’8-10 per cento per fare la differenza vera».

Aggiungiamo al quadro un altro po’ di colore, giallo e rosa, come il mancorrente che porta al piano superiore di Officina Battaglin.

Giovanni BattaglinDurante la nostra intervista
Quei due trofei

Una parentesi nel racconto.
«Li vedi lì i due trofei? Quello delle Vuelta è enorme, quello del Giro molto più modesto – si rammarica Battaglin – ma ora mi hanno detto che dovrebbero darmi quello Senza Fine del Giro d’Italia. Ho già preparato il posto in bacheca. Certo, a Moser lo hanno dato già…»

trofei battaglin giro e vueltaI trofei della Vuelta e del Giro d’Italia
Un gruppo fatto di rispetto e umanità

Il ciclismo di quegli anni era anche un mondo di relazioni intense perché inevitabili. «Le squadre erano più piccole e si finiva col dormire tutti insieme negli alberghi. Ci si ritrovava tutti lì e le serate scorrevano tra scherzi, racconti e goliardia».

Magari si ripassava quel che era accaduto in corsa.
«Avete presente gli assalti ai bar?»

Battaglin intinge il pennello, stavolta è l’azzurro dell’acqua.
«Mica ti avvicinavi all’ammiraglia a chiedere la borraccia come oggi, c’erano i gregari che dovevano fare scorta e poi portare ai capitani.  C’erano gli assalti ai bar, arraffavano di tutto e scappavano in gruppo al grido di “paga Torriani” (il patron del Giro, ndr)».
«Non erano conti da poco al punto che Torriani aveva predisposto un’auto, a fine gara, che passava per i bar a saldare i conti, cercando di capire chi avesse preso cosa»

E poi?
«E poi era sempre Torriani, mica ti regalava niente. Tirava una riga, faceva i conti e detraeva dai premi». Di nuovo quel sorriso sbilenco a sottolineare che «Funzionava così».

Erano forme di rispetto come quella gerarchia rigidissima. I “senatori” come Merckx o Gimondi godevano di un rispetto assoluto.
«Un giovane aveva il terrore di chiudere un buco a un capitano in lotta per la classifica, per non ostacolarlo. Mica poteva sprecare energia per chiudere un buco un capitano, era mestiere da gregario e guai».

E oggi?
«È un’etica che sparisce oggi, almeno in parte. Il professionismo accelera i tempi, porta ragazzi di 17 o 18 anni al massimo livello e li espone a rischi senza che abbiano ancora la maturità culturale di un tempo. I tempi cambiano». Non è un giudizio quello di Battaglin, è una presa d’atto. Una pennellata opaca di silenzio.

Giovanni BattaglinHai Battaglin? Una delle biglie più ricercate
Dalla lana al carbonio

«La differenza nei materiali? Lo sai che io non volevo mai andare sul palco, pensavano fossi scorbutico, ma avevo freddo»

A proposito di De Zan il volto televisivo e la voce di generazioni di ciclismo.
«I palchi erano allestiti con assi di legno che facevano salire su spifferi di aria gelida, eri sudato, con quelle maglie che diventavano pesantissime e non ti dico cosa diventavano quando pioveva. Era un attimo prendersi una bronchite. Tu eri lì a parlare e poi De Zan si interrompeva per nominare quelli che tagliavano il traguardo staccati. Perdevi pure il filo. Meglio andarsi a cambiare».

Oggi si parla di telai in carbonio, 13 velocità, abbigliamento, ricerca continua…
«Guarda, anche l’alimentazione era un’altra cosa: riso, panini, frutta preparati in casa, lontani anni luce da gel, barrette e integratori scientifici»

Diversa era soprattutto la gestione mentale.
«Dopo il Lombardia non ne potevi più di corse, io me ne andavo a caccia, ma quel vuoto di pedalate mi permetteva di tornare all’Epifania con una fame autentica di bicicletta, evitando la saturazione che oggi molti atleti conoscono allenandosi tutto l’anno.

E poi la prima corsa?
«A Laigueglia»

Giovanni BattaglinUna maglia rosa. Ma questa non è di Battaglin, è una replica di quella di Stephen Roche che ha vinto il Giro d’Italia con bici Battaglin nel 1987 (la firma è originale).
Il mercato e l’anima del “su misura”

Negli anni Ottanta l’azienda Battaglin vendeva migliaia di telai, fino a settemila l’anno solo in Germania. Oggi il mercato si è spostato verso il custom di alta gamma: meno volumi, più valore concentrato nella personalizzazione, nella precisione millimetrica delle lavorazioni, nella fresatura dei tubi. È un altro mondo, ma con un filo che lega passato e presente.

Perché, ascoltando Battaglin, emerge una convinzione chiara: se un tempo il ciclismo era un’arte della sopravvivenza e dell’improvvisazione, oggi è una scienza e non si scappa. Ma il cuore resta lo stesso. È la passione che spingeva a forare una guarnitura in un parcheggio coperto, la stessa che oggi anima chi cerca nella bicicletta su misura non solo un mezzo veloce, ma un’anima.

L’intervista finisce qui. Giovanni sorride ancora: «Andiamo giù, che ti faccio vedere come facciamo le biciclette».

Giriamo pagina degli appunti, riaccendiamo registratore e telecamera. Stiamo per raccontarvi un’altra storia.

Giovanni BattaglinGiovanni Battaglin con il figlio Alessandro in officina