Il Tour de France 2025 si è concluso da pochi giorni e Ivano Fanini ha molto da dire sulla corsa più importante del ciclismo mondiale, avendo avuto anche un legame particolare con il Tour di quest’anno. Un legame che va oltre il semplice interesse professionale.

«È stato uno spettacolo interessante, senza però essere fenomenale o particolarmente emozionante, ci tengo a precisarlo. È stato comunque un buon Tour, bello da vedere, ma non con picchi che ti fanno battere il cuore come altre edizioni. La cosa che mi ha colpito maggiormente è stata l’ultima tappa, quella sui Campi Elisi con Wout Van Aert che è riuscito a fare qualcosa di incredibile, vincendo in un luogo storico, ma soprattutto staccando Pogacar, che voleva assolutamente vincere con la maglia gialla. Da italiano, però, mi sono emozionato soprattutto per la conquista della maglia verde, che è tornata in Italia grazie a Jonathan Milan. Un traguardo incredibile che solo tre ciclisti italiani hanno saputo conquistare. Tra l’altro, tutti e tre hanno in qualche modo legami con me. Il grandissimo Franco Bitossi infatti, ha corso con le bici Fanini e la nostra amicizia tutt’ora. Poi c’è Petacchi, che ormai vive nelle mie zone da anni. Anche se non ho mai avuto il piacere di farlo correre con le mie squadre  (a dire il vero, avrei voluto ingaggiarlo agli inizi di carriera, ma poi virai su Magnusson), ci lega una profonda stima reciproca. E infine, Milan, figlio di Flavio, che ho fatto passare professionista con Amore e Vita nel 1992».

«Ci sono però altri atleti legati al mio team- continua Ivano Fanini- che si sono messi in evidenza durante questo Tour. Lenny Martinez, il più giovane atleta in gara, ha indossato per molti giorni la maglia a pois di leader della classifica degli scalatori. Lo ricordo quando aveva solo cinque anni e faceva le sue prime pedalate con la nostra maglia Amore e Vita – McDonald’s. All’epoca suo padre Miguel, tre volte campione del mondo e campione olimpico di MTB a Sydney 2000, correva con noi. Vederlo oggi, poco più che ventenne, protagonista al Tour, è una soddisfazione enorme. Sono convinto che, con la giusta esperienza, Lenny non si limiterà a vincere la maglia a pois, ma potrà a risultati ancora più importanti… Non sarà facile, ma ha la mentalità giusta e la guida perfetta del padre. Poi c’è Mike Woods, canadese portacolori della Israel, che abbiamo scoperto e portato al ciclismo dopo la sua carriera nell’atletica. Woods ha avuto delle giornate da protagonista, ma purtroppo gli è mancato il successo di tappa ma vederlo lì è una soddisfazione continua».

E ancora: «Anche a causa del mio legame molto forte con il ciclismo danese, ho seguito con trepidazione anche la gara di Vingegaard: alla fine degli anni ’70 e in tutti gli anni ’80 ho avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del ciclismo in Danimarca, ho anche lanciato molti atleti e tra i tanti non posso dimenticare Brian Pedersen, un mio atleta nel 1990, che è stato lo scopritore e il direttore sportivo di Jonas fino al suo passaggio alla Visma, e per questo motivo tifo con grande passione per lui. Tuttavia, quest’anno Pogacar è stato davvero incontenibile sotto ogni punto di vista, non lascia mai nulla agli avversari, nemmeno un piccolo ‘regalo’. Bisogna ammettere che è il migliore di tutti, secondo me è già il più grande ciclista di tutti i tempi. Vince praticamente il 95% delle corse a cui partecipa, domina in salita, in volate ristrette, è tra i più forti a crono, sui muri delle classiche e non ha paura ad attaccare e fare lunghe fughe da solo. E tutto questo lo fa in un modo che nessuno aveva mai fatto prima. Nessuno, nemmeno Fausto Coppi, Eddy Merckx, Bernard Hinault o Miguel Indurain è mai stato capace di fare quello che sta facendo lui. La Slovenia è davvero fortunata ad avere il numero uno del ciclismo mondiale, e non solo, perché molti altri talenti stanno venendo fuori grazie all’impulso Pogacar».

Ivano Fanini conclude il suo intervento con una valutazione che riguarda la politica e la situazione internazionale: «Mi sento particolarmente vicino al team  Israel per molte ragioni. Innanzitutto, voglio sottolineare che il Team Manager Kjell Carlstrom l’ho portato proprio io nel mondo del professionismo. Lo scoprii nel 2000 durante una gara in Bulgaria e dal 2001 al 2004 ha corso con noi, vivendo quattro stagioni bellissime che gli permisero poi di fare il salto alla Liquigas. Kello, come lo chiamavamo, è una persona di grande intelligenza e già allora si percepiva chiaramente che possedeva qualcosa di speciale. Nella sua squadra ci sono figure a me molto care, come i direttori sportivi Frassi e Cataford: il primo è stato Direttore Sportivo della nostra squadra per molti anni, mentre Cataford ha corso con noi come atleta. Anche il meccanico polacco Dabrowski ha fatto parte di Amore e Vita per diverse stagioni come corridore, senza dimenticare Mike Woods, che ho già menzionato. Per tutti questi motivi, mi sento davvero vicino a loro. In realtà, grazie proprio a Carlstrom, avevamo anche  progettato una collaborazione che avrebbe dovuto concretizzarsi nel 2022, ma alla fine, a causa di scelte dell’ultimo minuto del patron Sylvn Adams, la cosa purtroppo non andò in porto. Ciò che ho letto nell’articolo di De Marchi riportato da tuttobiciweb lo condivido pienamente e gli faccio un grande applauso per il coraggio che ha avuto nell’esprimere pubblicamente il suo punto di vista, che so bene potrebbe risultare scomodo a molti. Tuttavia, la situazione in Israele è davvero tragica,e mi addolora profondamente poiché è una terra che amo molto. Come praticante cattolico e legato al Santo Padre Giovanni Paolo II, ho avuto il privilegio di visitare Israele numerose volte, per vedere i luoghi legati alla vita di Gesù Cristo. Ma ciò che sta accadendo oggi è devastante e vergognoso. I morti non si contano più, e sembra che non ci sia una via d’uscita pacifica, almeno nel breve periodo, purtroppo. Ho anche un ex atleta israeliano, Niv Libner, con cui io e mio figlio Cristian siamo ancora in contatto. Lui si trova attualmente sotto le bombe, e ci descrive la situazione come apocalittica. Noi, nel nostro piccolo, abbiamo vissuto una situazione simile con la guerra in Ucraina. Avendo un gran numero di atleti ucraini e una licenza in quel paese, decidemmo di fermarci per riprendere più avanti. Successivamente, mi è stata proposta la possibilità di portare nel team uno sponsor russo e uno iraniano, ma ho scelto di non farlo, proprio per la situazione geopolitica in quei paesi, entrambi coinvolti in conflitti. L’UCI, in quel caso, aveva preso una posizione chiara che noi abbiamo sostenuto e rispettato. Ora, non sto dicendo che il team Israel debba smettere di esistere, assolutamente no. Anzi, credo che debbano continuare a correre. Ma mi chiedo se continuare a farlo con il nome “Israel” non stia creando più danni che benefici, soprattutto in un contesto globale così teso. Mi viene in mente una situazione che riguarda la mia squadra. Nel 1989, decisi di scrivere sulle maglie della squadra un messaggio molto forte: “No all’Aborto”. Quel messaggio ci portò tantissime critiche, soprattutto da parte di femministe e altre persone contrarie, e ad ogni corsa ci fermavano per protestare, imbrattando le maglie dei nostri corridori e le nostre ammiraglie. Fu proprio per questo che il Santo Padre Giovanni Paolo II mi consigliò di togliere quel messaggio e sostituirlo con uno più universale, di pace. Così, nacque il nome “Amore e Vita”, che da allora è il nostro simbolo. Credo che la squadra Israel oggi debba riflettere su quanto possa essere più significativo un gesto simile. Se lo desiderano, sono disposto a offrire loro il nostro nome “AMORE E VITA” con grande piacere, senza chiedere nulla in cambio. Un passo del genere rappresenterebbe un gesto importante, che farebbe onore a Israele, un paese che oggi è criticato dalla maggior parte della comunità internazionale. Quindi, se lo desiderano, sono pronto a dar loro il nostro nome, come segno di pace e speranza. Ora più che mai sarebbe un passo in avanti significativo e indelebile, un segno di pace importantissimo  per loro, in un momento storico così drammatico».