Nel dibattito pubblico statunitense l’alleanza tra Stati Uniti e Israele è spesso presentata come un dato strutturale, quasi ovvio. Anche al di là delle narrazioni più scontate (e spesso interessate) è indubbio che quell’alleanza è la conseguenza naturale di un rapporto fondato su valori condivisi e su convergenze strategiche di lungo periodo. Eppure, se si osserva la politica mediorientale di Washington più da un punto di vista operativo che ideologico,sorge spontanea una domanda: chi è oggi il maggiore alleato degli Stati Uniti nella regione, Israele o il Qatar?

È attorno a questa domanda che ruota l’ultimo dei “Monologhi” del Tucker Carlson Network, col quale il famoso podcaster si prende probabilmente una rivincita sull’accusa più feroce dei sionisti nei suoi confronti, quella di essere a libro paga del piccolo ma ricchissimo Qatar. Accusa, ben inteso, scattata nel preciso istante in cui Carlson ha cominciato a prendere le distanze da Israele sui massacri di Gaza. Nel suo monologo Carlson invita a distinguere tra alleanze celebrate nella retorica politica e alleanze misurate in base alla dipendenza reale che esse generano. Secondo la sua impostazione, il criterio decisivo non è ciò che viene proclamato nei discorsi ufficiali, ma ciò che consente concretamente agli Stati Uniti di agire sul piano militare e diplomatico.

Israele: alleato storico ma non controllabile

Alla luce di questo cambio di prospettiva, Israele resta senza dubbio il partner più solido degli Stati Uniti sul piano militare e dell’intelligence. La cooperazione è profonda e radicata, ma, come Carlson spiega nel corso del monologo, si tratta di un’alleanza asimmetrica. Israele è un alleato forte, ma non subordinato: un attore sovrano che persegue interessi propri e che può imporre a Washington costi politici e diplomatici significativi senza offrire in cambio un controllo strategico equivalente.

Dal punto di vista americano, le operazioni militari israeliane, la gestione del conflitto con i palestinesi e il confronto permanente con l’Iran finiscono spesso per trascinare gli Stati Uniti in crisi che non controllano pienamente, ma di cui pagano il prezzo sul piano internazionale. Carlson insiste sul fatto che il sostegno incondizionato a Israele comporta un costo reputazionale crescente, soprattutto nel mondo non occidentale, senza tradursi necessariamente in un vantaggio operativo diretto per Washington.

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Il Qatar e la centralità operativa americana

Carlson sottolinea come il Qatar, pur essendo un piccolo Stato sul piano demografico e territoriale, sia diventato un ingranaggio essenziale della presenza militare americana in Medio Oriente. La base di Al Udeid, che ospita il quartier generale avanzato del CENTCOM (United States Central Command, uno dei comandi combattenti unificati delle Forze armate statunitensi), rappresenta uno snodo logistico senza il quale la capacità statunitense di proiettare forza nella regione sarebbe fortemente ridimensionata.

Nel ragionamento di Tucker questo dato è centrale: mentre Israele è un alleato politico e simbolico, il Qatar è un alleato funzionale, ed è proprio questa utilità immediata a spiegare perché Washington continui a proteggere Doha nonostante le sue ambiguità, dai rapporti con Hamas alla vicinanza con l’Iran.

L’ambiguità come strumento geopolitico

Carlson osserva come il Qatar abbia costruito la propria rilevanza internazionale sfruttando deliberatamente una posizione ambigua. Doha ospita basi americane, finanzia e dialoga con movimenti islamisti, mantiene canali aperti con attori considerati nemici dagli Stati Uniti e, allo stesso tempo, si propone come mediatore indispensabile nei conflitti più complessi.

Secondo l’analisi proposta, questa capacità di parlare con tutti è precisamente ciò che rende il Qatar indispensabile per Washington. Gli Stati Uniti, che non possono negoziare direttamente con certi attori senza esporsi politicamente, delegano di fatto questa funzione a Doha. Israele, per ragioni storiche e politiche, non è in grado di svolgere un ruolo analogo.

Retorica pubblica e realtà strategica

Nel podcast, Carlson insiste sulla profonda distanza tra la retorica ufficiale americana e le scelte effettive di politica estera. Da un lato, Washington continua a presentare Israele come il proprio alleato principale e come baluardo di valori condivisi; dall’altro, evita accuratamente qualsiasi rottura con il Qatar, pur denunciandone a parole il ruolo ambiguo.

Secondo Carlson, questa contraddizione rivela una verità scomoda: gli Stati Uniti condannano Doha sul piano morale, ma la tollerano sul piano strategico perché sanno di non poterne fare a meno. È una dinamica che mette in luce una politica estera sempre più guidata dall’emergenza e dalla necessità, piuttosto che da una visione coerente di lungo periodo.

Una crisi nella definizione di alleato

Il nodo centrale dell’episodio è quindi concettuale prima ancora che geopolitico. Carlson pone una domanda che va oltre Israele e il Qatar: che cosa significa oggi essere un alleato degli Stati Uniti? Condividere valori e principi, oppure rendere possibile l’azione americana sul terreno?

Nel tentativo di mantenere entrambe le relazioni – Israele come alleato morale e il Qatar come alleato operativo – Washington, secondo Carlson, sta producendo una strategia ambigua e instabile. Una strategia che rischia di non reggere nel lungo periodo e che contribuisce a erodere la credibilità americana, sia tra gli avversari sia tra gli stessi partner.

Alla fine, se il monologo non offre una risposta definitiva alla domanda iniziale, costringe tuttavia a riformulare la domanda stessa. Il problema non è stabilire se Israele o il Qatar siano il “vero” alleato degli Stati Uniti, bensì riconoscere che gli Stati Uniti stessi sembrano aver smarrito una definizione chiara di alleanza. Finché questa ambiguità resterà irrisolta, Washington continuerà a oscillare tra principi dichiarati e necessità operative, senza riuscire a ricomporre le contraddizioni della propria politica mediorientale. Come provocazione intellettuale non c’è male.