di
Massimo Gaggi
L’imprenditore nato a Taiwan e naturalizzato americano scelto da L’Economia del Corriere come persona economica dell’anno, ha costruito nell’arco di trent’anni, partendo da zero, l’impresa di maggior valore al mondo con 4.300 miliardi di capitalizzazione a Wall Street
Visionario, lavoratore maniacale, dittatore benevolo che in azienda si infuria con chi sbaglia, ma non licenzia. Jensen Huang, l’imprenditore nato a Taiwan e naturalizzato americano scelto da L’Economia del Corriere come persona economica dell’anno, ha costruito nell’arco di trent’anni, partendo da zero, l’impresa di maggior valore al mondo: Nvidia. Un nome che venne scelto con riferimento al termine latino (e italiano) di invidia: fin dall’inizio Huang scelse di ostentare la volontà di suscitarla nei suoi concorrenti.
E c’è riuscito: Intel, che allora dominava il mercato dei microprocessori, oggi arranca in debito d’ossigeno e di tecnologia mentre Nvidia è leader assoluto nei semiconduttori ed è quasi monopolista per quelli destinati ai supercomputer.
La biografia tormentata
La straordinaria avventura di Huang, che a cinque anni ha lasciato Taiwan per la Thailandia e a dieci è approdato negli Usa, prima bullizzato in una scuola media del Kentucky, poi a Portland dove diventa ingegnere nell’università pubblica più a buon mercato, la Oregon State, è il frutto di quattro ingredienti: genio nello sviluppo di nuove tecnologie; disponibilità a rischiare tutto su una nuova idea nella quale crede fortemente anche a costo di abbandonare un business redditizio ma ormai maturo (quello dei videogame); enorme capacità di lavoro con uno stile di leadership che unisce la concretezza di chi viene dalla gavetta a una forte tendenza all’accentramento delle funzioni; infine una buona dose di fortuna.
Come gli altri tycoon della Silicon Valley, anche Huang è ora oggetto di biografie che tendono a sconfinare nell’agiografia. Ma a differenza di altri leader divenuti personaggi pubblici, addirittura icone (Steve Jobs), celebrity che fanno notizia per feste sontuose e voli nello spazio (Jeff Bezos) o leader aziendali che coltivano l’ambizione di cambiare la società civile, addirittura il mondo (Elon Musk, Peter Thiel, Mark Zuckerberg), Jensen Huang ha sempre mantenuto uno stile molto riservato: parla assai poco di sé anche coi biografi e non si pone mai obiettivi politici.
Nell’ultimo anno si è recato spesso alla Casa Bianca e ha stretto un rapporto con Donald Trump ma per poter strappare quello che, alla fine, ha ottenuto: il via libera all’esportazione dei suoi microprocessori verso la Cina e altre aree fin qui sottoposte a forti limitazioni (Arabia Saudita, Qatar). Il suo successo nel convincere il presidente Usa che l’embargo è controproducente perché spinge Pechino a moltiplicare gli sforzi per produrre in casa i processori più avanzati senza dipendere più da quelli americani, ha avuto certamente un suo peso geopolitico nel rapporto Usa-Cina, ma Huang si è mosso nell’ottica di rimuovere un ostacolo all’ulteriore sviluppo della sua azienda.
Nvidia è divenuta un gigante grazie a visioni e scelte coraggiose: nel 1993 Huang, che aveva cominciato a lavorare prima per AMD, un altro produttore di chip, e poi per LSI Logic, decide di mettersi in proprio e insieme a due disegnatori grafici crea la sua nuova società entrando nel vivace ma affollato mercato dei videogiochi: vuole produrre schede grafiche più avanzate e potenti. Sono anni di successi e sconfitte, grandi profitti e rischi di bancarotta, soprattutto dopo lo scoppio della bolla delle dot com, nel 2000. Da allora «dobbiamo lavorare con l’impegno di chi teme di essere a 30 giorni dal fallimento» è diventato il motto ufficiale di Nvidia: anche ora che la società vale circa 4400 miliardi di dollari, come il Pil di Italia e Spagna messi insieme. Ma Nvidia sopravvive a quella crisi.
Il cambio in corsa
Huang, unico leader di un’azienda nata prima della bolla tuttora alla guida della sua impresa, nel primo decennio del nuovo secolo ha fatto decollare l’azienda con due scommesse temerarie: dapprima il cambio dell’architettura del microprocessore da lineare (un’operazione alla volta) al parallel processing. Una tecnologia di enorme complessità che, però, una volta messa a punto, ha dato ai suoi chip una velocità e una potenza molto superiori ai competitor, lasciando indietro anche Intel.
La seconda scommessa: trasferire queste sue nuove Gpu (Graphic processing unit) dal business sicuro e redditizio ma statico dei videogame alla gestione di grandi volumi di dati a fini di ricerca scientifica. Un progetto tenuto inizialmente segreto, basato sullo sviluppo della piattaforma software per supercomputer Cuda. Geniale tecnicamente, ma con un limite commerciale: quello della ricerca scientifica è un mercato troppo piccolo. Il titolo perde quota in Borsa, gli azionisti mugugnano e premono affinché Nvidia torni a dare priorità al più redditizio mercato del gaming. Huang ha il merito di resistere, ma è anche fortunato perché proprio in quegli anni sboccia, con le prime reti neurali e la diffusione delle tecniche del machine learning, il mercato dell’Ai: un mercato che ha fame dei potenti chip prodotti solo da Nvidia.
La fortuna aiuta gli audaci
Fortunato, ma anche bisognoso di un aiutino: fin dal 2009 Geoffrey Hinton, considerato il padre dell’Ai, spiega nei convegni che i chip Nvidia sono i migliori per lo sviluppo delle reti neurali. Grazie a due sue Gpu, AlexNet sviluppa il primo, rivoluzionario, sistema di riconoscimento delle immagini, ma ancora nel 2013, al summit delle industrie del suo settore, Huang non cita nemmeno le reti neurali. È un oscuro ricercatore di lontane origini italiane, Bryan Catanzaro, a capire le enormi possibilità che si stanno aprendo per la tecnologia Nvidia e a spiegarle a Huang. Per lui è un fulmine che i biografi paragonano alla conversione di San Paolo sulla via di Damasco: in un weekend trasforma l’impresa specializzata in grafica in un’azienda dell’intelligenza artificiale. Ancora oggi il fondatore rifiuta l’etichetta di produttore di microprocessori: sostiene di essere nel business dei sistemi per l’Ai.
Al di là delle definizioni, oggi Nvidia è un gigante con 36 mila dipendenti che, oltre a produrre i semiconduttori più potenti e avanzati, sviluppa sistemi complessi come quelli di guida autonoma per varie case automobilistiche, collabora nel campo della ricerca con le università di mezzo mondo e sostiene il mercato dei suoi processori anche investendo nelle imprese che li utilizzano: incroci pericolosi in caso di scoppio della nuova bolla dell’Ai che è andata formandosi negli ultimi due anni, sull’onda dell’entusiasmo per ChatGPT. Né può essere escluso un calo della domanda di GPU o la nascita di concorrenti competitivi (Amazon, Google e altri stanno sviluppando in casa i loro chip tentando di sottrarsi al monopolio Nvidia). Huang non se ne preoccupa, pensa solo a migliorare i suoi prodotti e ad aprire mercati. Questa è la sua forza, ma anche il suo limite.
La forza di uno stile essenziale, sobrio: il suo look contrassegnato sempre da un giubbotto di pelle nera non è il tentativo di fare moda ma una scelta pratica (il capo d’abbigliamento per lui più semplice da indossare) e anche psicologica: la pelle è uno scudo per l’uomo che ha vissuto un’adolescenza difficile. Jensen non nasconde ad esempio di aver cominciato lavorando come lavapiatti in un fast food Denny’s a 15 anni. Anzi, proprio perché ha imparato molto partendo dal basso nel suo stile manageriale, c’è il contatto con tutti i dipendenti, indipendentemente dai rapporti gerarchici.
La tecnica motivazionale
È così che gli sono arrivati i consigli di Catanzaro. Un rapporto diretto, un rimboccarsi le maniche in mezzo agli altri dipendenti che lo rende un capo carismatico, benvoluto nonostante le sfuriate riservate in pubblico a chi sbaglia. È la sua tecnica motivazionale, dice chi lavora con lui: poi, a differenza degli altri boss di Silicon Valley, non licenzia mai nessuno. Una storia di successo con due limiti.
Huang è un accentratore: i suoi 30 capi area riportano solo a lui. Non ci sono vice, non ci sono bracci destri né successori designati. Niente delfini né maggiordomi.
In secondo luogo Huang non prospetta una sua visione per il futuro. Si limita a negare che l’intelligenza artificiale creerà problemi sociali perché mangerà moltissimi posti di lavoro. Non solo nega, ma si infuria se solo gli viene posta la domanda: sostiene che nella storia la tecnologia ha sempre fatto questo, ridurre il costo di produzione di beni e servizi e alla fine il benessere è cresciuto. Per lui esiste solo la fiducia assoluta nel progresso tecnologico, anche se molti — non solo filosofi, sociologi e politici ma anche imprenditorie e scienziati — avvertono che stavolta è diverso: una tecnologia che può sostituire l’uomo in tutte le sue funzioni e può raggiungere livelli di intelligenza molto superiori ai suoi, pone all’umanità problemi di una natura fin qui sconosciuta.
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22 dicembre 2025
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