COLLEFERRO (Giulio Iannone) – Conosciamo la storia forse meglio di chiunque altro, abbiamo letto il libro “40 secondi” della collega de “la Repubblica”, Federica Angeli e abbiamo visto il film – in questi giorni nelle sale con lo stesso titolo – per la Regia di Vincenzo Alfieri.
Qualcosa non torna…
Abbiamo fatto del tutto – nel nostro piccolo – per evitare che la tragedia di Willy Monteiro Duarte segnasse, con una ferita non rimarginabile, il nostro territorio oltreché le nostre coscienze già di loro vilipese da tanta insulsa violenza andata in scena su un palco per nulla abituato a tanto.
Oggi possiamo dire che se il libro della collega Federica Angeli è assolutamente attendibile e contiene estratti e stralci di atti reali, il film di contro ci lascia in buona parte sconcertati e in alcuni tratti addirittura inebetiti.
Se lo spettatore non conoscesse la storia vera, se non avesse letto il libro, se vivesse lontano da questi luoghi, uscirebbe dalla sala cinematografica con un’idea sulle condizioni socio-culturali delle nostre zone per niente attinente alla realtà.
Quegli scorci geografici, paesaggistici e sociali che appaiono nel film, da noi non ci sono.
Il film si apre con immagini bucoliche che non ci appartengono.
Nel film si parla ripetutamente di “paese” stridendo con la realtà e con la stessa ambientazione ricreata nel film (architettura razionalista, discoteca, ristorante con chef stellato…).
In effetti le riprese sono state girate in buona parte a Guidonia Montecelio (Comune che ha patrocinato il film) e infatti quello sullo sfondo del campetto in terra battuta (vedi le foto in alto) è il cementificio (unica cosa in comune con Colleferro).
I personaggi, le comparse e anche i figuranti, tutti, misconoscono la lingua italiana; molti parlano dialetti extraregionali… È vero che Colleferro è un coacervo di culture provenienti da tutta Italia, ma i giovani da noi non parlano come nel film.
Abbiamo difficoltà a comprenderne il motivo ma, a parte il nome di Willy, il regista ha imposto a tutti gli altri personaggi, nomi di fantasia, salvo poi ricredersi nei titoli di coda, nei quali i nomi dei protagonisti reali vengono scanditi chiaramente e nei quali appaiono spezzoni di video tratti dai telegiornali e da programmi televisivi dedicati alla vicenda…
Nella narrazione del film invece sembra quasi che lo stesso regista sia intimorito dalle figure dei “gemelli violenti” (che nella realtà gemelli non sono) al punto da renderli innominabili e, con loro, anche tutti gli altri protagonisti.
È molto bella l’idea di narrare nel film tutto ciò che accade nelle 24 ore precedenti al pestaggio a morte di Willy. In parallelo vengono “inquadrate” quattro prospettive diverse, quelle di Maurizio, di Michelle e dei due gemelli Federico e Lorenzo.
La scelta è ottima, serve a far salire il livello di ansia, considerando l’ordine in cui susseguono le quattro prospettive. E Willy compare dopo le prospettive, quando l’ansia è già alta e appaiono particolarmente evidenti due cose: la casualità della sua presenza sul luogo della “rissa” e l’effetto branco portato all’estremo…
Probabilmente se non avessimo letto – nelle note di regia inserite in una brochure inviata alle scuole per proporre una proiezione personalizzata – affermazioni del tipo: «…ho imposto da subito a me stesso un taglio quasi documentaristico, un racconto visivamente scarno di velleità registiche, e una recitazione che fosse verità assoluta…», avremmo potuto considerare l’opera cinematografica “liberamente” tratta dal libro della Angeli…
Invece ci sentiamo di definirla un’opera cinematografica che non va oltre l’essere “astrattamente” ispirata dal libro della Angeli…
Ma se si vuole caratterizzare e vestire il film di un “taglio documentaristico”, allora non siamo assolutamente d’accordo.
Evitiamo qui di fare l’elenco dettagliato dei fatti, dei luoghi, delle caratteristiche dei personaggi, dei toni, del linguaggio e degli accenti, che non corrispondono affatto alla realtà.
Ma non possiamo soprassedere dall’osservare che allo spettatore di Catania, o a quello di Milano, si offre uno spaccato di una realtà che non esiste.
Non qui.
Ne fa le spese lo stesso tentativo dichiarato – apprezzabile, ma non ci sembra del tutto riuscito – di “rappresentare” «una storia di ventenni, e del Male annidato nelle loro giornate tutte uguali. Un virus che colpisce facilmente gli abitanti di piccoli centri… la noia. Le imprese dei ventenni, nel bene o nel male, avvengono e basta. Nella maniera più inconsulta, illogica e violenta possibile».
Il massimo della distanza tra realtà e fiction lo si raggiunge nella dichiarazione dell’«obiettivo ambizioso» che sarebbe quello di «sgrassare la scena da tutto l’orrore e preservare l’estrema aderenza ai fatti».
Per quello che abbiamo visto nel film ci sembra che il regista, prendendo spunto da un fatto di cronaca, abbia dipinto, con pennello spesso, e colori freddi, uno spaccato sociale assolutamente verosimile, e anche giustamente stigmatizzabile, ma per nulla riconducibile ai luoghi reali in cui è maturato il fatto di cronaca.
Da umili cronisti di provincia questa volta ci è sembrato il caso di ribellarci a una narrazione che non ci rappresenta in nessun modo.
Colleferro non è così. E non lo sono nemmeno Artena e Paliano.
E nemmeno i ragazzi che ci vivono…



